Forse
dovrei smettere di introdurre ogni recensione con una serie di chiacchiere
preliminari su quello che leggo e quello che faccio. M'immagino uno
che cerca informazioni su un dato libro e si trova a leggere le mie
lamentazioni sullo studio, o sul mio cronico bisogno di caffè. Però
è appena passato Natale, e sotto il mio albero c'erano così tanti bei
libri, non posso mica omettere l'argomento come fosse poca cosa. È stato
un Natale estremamente proficuo e sto adorando L'amica geniale della
Ferrante.
Oh, mi sento meglio, ora che
l'ho detto. E aggiungo anche che spero stiate
passando delle buone vacanze, che dai vostri pacchetti siano emerse
quintalate di libri e che il pranzo di Natale non vi abbia sminuzzato
il fegato.
E
ora posso incominciare a parlare di Libriomancer di Jim C. Hines,
tradotto da Marcello Nicolini e pubblicato da La Ponga Edizioni.
Di
questo libro avevo sentito parlare per la prima volta da Tarenzi
durante l'educational di Lucca dedicato all'urban-fantasy. So che sto
rischiando di puntare l'attenzione più sull'amara condizione del
fantasy in Italia piuttosto che sul libro cui dovrei dedicarmi, ma
non credo sia possibile parlare dell'edizione nostrana di
Libriomancer senza fare cenno al fatto che, per estremamente figo e
commerciabile che sia questo libro, sia stata una casa editrice
piccola e giovane ad accaparrarsene i diritti, perché le altre...
beh, si vede che c'avevano da fare. Per dire, la pochezza
dell'editoria di genere italiana.
E
dunque, è bastato che sentissi Tarenzi abbozzare la trama di questo
libro perché mi partisse la sbregola. Perché Libriomancer è un
libro assurdo e nerdacchioso e librosamente potente... e soprattutto
estremamente contemporaneo. Impossibile non partire dalla premessa
meravigliosa su cui si fonda la storia: esiste la magia. E la magia
prende forza dall'immaginario collettivo, e quali sono le porte più ovvie per l'immaginario collettivo? I libri. Libriomancer è un
urban-fantasy che fonda la propria magia sui libri. Il mago è colui
che può inserirsi nel libro e portarsene via un pezzetto, che sia la
bacchetta di Harry Potter o un qualsiasi altro oggetto. Alcuni, per
la loro pericolosità, sono stati 'bloccati' da colui che secoli fa
ha avuto l'idea di imbrigliare la magia alla carta: Gutenberg. Chi
altri? Gutenberg che ha saputo rendersi immortale e che domina il
mondo dei maghi e di cui sembrano essersi perse le tracce, mentre
scoppia una pre-guerra tra i vampiri e i Libromanti.
I
vampiri. Ce ne sono di 'reali', e ce ne sono ancora di più nati
dall'uso sconsiderato o involontario della magia. Magari qualcuno è
scivolato senza accorgersene in Dracula o in un libro della serie di
Anita Blake ed è stato morso, e si è ritrovato ad essere un vampiro
con le esatte caratteristiche che hanno quelli raccontati nel libro
che stavano leggendo, il che rende nemici quasi imbattibili quelli
nati dall'incontro tra lettore e Twilight, che non possono essere
uccisi né col sole né col classico paletto, sono super-forti e
velocissimi e... beh, così via.
Immagino
si sia ormai capito che il mondo creato da Hines mi è piaciuto un
sacco, per le sue regole bislacche e per come è riuscito a
mantenerlo sempre coerente, nonostante qualche tiro un po' troppo
lungo. È un mondo costruito da un Lettore ossessivo, e lo dico con
un caloroso senso di fratellanza. Mi verrebbe fino da creare
l'hashtag #HinesUnoDiNoi.
La
storia narrata è invece abbastanza semplice e lineare, forse pure
troppo. Il protagonista, Isaac Vainio, un bibliotecario Libromante
sospeso dal servizio attivo, riceve la visita di tre vampiri che, non
troppo cortesemente, gli ingiungono di dare loro informazioni su
certi attacchi avvenuti ai danni dei vampiri. Sono convinti che
qualcuno abbia cominciato a dare loro la caccia, nonostante la tregua
raggiunta dopo secoli di tentativi tra maghi e vampiri. Isaac non sa
nulla e ovviamente rischia grosso. Fortunatamente giunge in suo
soccorso Lena, una creatura nata da una serie fantascientifica e
rimasta nel mondo 'reale'.
Libriomancer
diventa una specie di road-trip inframezzato da discussioni sui
libri, sulla natura della magia, sul modo in cui è gestita da
Gutenberg. Lena e Isaac devono scoprire chi ci sia dietro gli
attacchi ai vampiri e dietro la sparizione di Gutenberg, prima che
scoppi una nuova guerra tra non-morti e maghi.
E
così via.
È
un libro che ovviamente mi è piaciuto un sacco, tra il mondo creato
e la tematica di cui è pregno. Avrei preferito che Hines avesse
optato per una narrazione meno lineare, ma considerando la
complessità nella spiegazione coerente dell'universo di cui stava
scrivendo, direi che posso capire la scelta, se di scelta si è trattato. Va da sè che attendo gioiosamente i
seguiti e che lo consiglio violentemente ai malati di libri e di magia.
Tuttavia ci sono
due pecche, cui non posso non fare cenno, la presenza di refusi
e la traduzione in certi punti un po' 'alla buona'. Ho trovato
diverse 'false friends' e di certe frasi si poteva vedere chiaramente
la sintassi inglese sotto la traduzione in italiano. C'è anche da
dire che, quando ne ho parlato all'editore, che peraltro me l'aveva
mandato a'ggratis, si è detto deciso a portare la cosa in riunione, oltre
che davvero gentile nella reazione, quindi c'è da sperare che gli
errori vengano corretti nelle prossime edizioni.
Quindi...
beh, che se aggiungessi altro, questa diventerebbe la recensione più
lunga che io abbia mai scritto. Quindi mi limito a un 'buone letture'
e a un più classico 'buone feste'.
Sono
ripiombata con tutte le scarpe in un periodo 'Austeniano', di quelli
in cui vorrei leggere tutto ciò che è stato scritto da e su Jane
Austen e centellino la visione dei film tratti dai suoi libri, perché
non perdano la loro magia in vista del prossimo periodo Austeniano.
Posso frattanto dire che il film del 2007 tratto da Persuasione non
mi è piaciuto granché, troppo freddo e grigio, con tentativi troppo
espliciti di dargli un taglio intimista. In compenso mi è piaciuto
moltissimo quello tratto da L'abbazia di Northanger, che credo
sarebbe piaciuto anche alla stessa zia Jane.
La
vita secondo Jane Austen di William Deresiewicz – traduzione di
Claudio Carcano – Tea, 2012
Questo
l'ho letto qualche mese fa, e chissà perché è rimasto in fondo
alla pila di libri da recensire finora. È rimasto schiacciato così a lungo che si è appiattito, e potrebbe perfino
passare per un libro mai letto.
A
scrivere questo libro è un professore di Yale che racconta di sé e
di come i libri di zia Jane abbiano finito per cambiarlo, per fargli
capire quali sono le cose veramente importanti della vita. All'inizio
era uno studentello saccente che gongolava citando Joyce e Proust, che
spargeva un dignitoso disprezzo quando si parlava dei romanzi
Austeniani o delle sorelle Bronte. Poi il professore di letteratura
inglese annuncia che dovranno leggere Emma, e lui si predispone a una
tremenda lettura. Che gli sembra tale, almeno all'inizio. Non capisce
Jane, non ne coglie e sottigliezze, ne ignora l'ironia, il ridicolo.
La situazione grottesca del padre di Emma, le sue assurde
preoccupazioni, le lunghe tirate con cui cerca di proteggere i suoi
amici dai malanni e se stesso dalla solitudine. La figura di Emma,
che parte così fiera, sicura di sé, decisa a fare da Cupido a mezzo
mondo, e che finisce soltanto per fare disastri. Emma è il mio
romanzo austeniano preferito, proprio per come la protagonista cambia
dall'inizio alla fine della storia.
E
dopo Emma, arrivano anche gli altri libri di Jane, e quello che hanno
fatto a William durante e dopo la lettura. Come l'hanno cambiato, che
cosa gli hanno fatto capire.
È
un bel libro, fluido, totalmente Austeniano, che sono ben lieta di
aver letto. Non è poi gonfio di rivelazioni sulla vita dell'autrice,
però, se è questo che si cerca.
Jane
Austen – I luoghi e gli amici di Constance Hill – traduzione di
Silvia Ogier, Mara Barbuni, Giuseppe Ierolli, Gabriella Parisi – Jo
March, 2013 – In collaborazione con JASIT
In
caso ve lo steste chiedendo, Jasit è il portale ufficiale della
'Jane Austen Society of Italy', in cui si possono trovare decine di
articoli meravigliosi tutti a tema Austeniano. Consiglio una quanto
più solerte visita al suddetto sito.
Dicevo,
se si cercano rivelazioni sulla vita di Jane, stralci delle lettere
che ha scritto e ricevuto, la storia della sua famiglia e dei suoi
amici, dei luoghi che ha visitato e che magari hanno ospitato i suoi
personaggi, allora questo libro è perfetto.
C'erano
una volta Constance e Ellen Hill, due sorelle super-janeites. Era il
1901 quando le due sono partite per visitare uno ad uno i luoghi di
zia Jane. E mentre Constance scriveva il 'diario di bordo', annotando
scoperte e impressioni, Ellen abbozzava il disegno del paesaggio, e
le sue illustrazioni punteggiano il volume.
Finora
è il testo più completo che io abbia letto sulla vita di Jane
Austen, e anche il più caloroso. Constance e Ellen sono sue ardenti
ammiratrici, e il loro viaggio è motivato dallo stesso sentimento
che mi ha imposto la lettura di questo libro – e che spero che un
giorno mi porterà a percorrere lo stesso tragitto.
Avevo
iniziato a leggerlo diverso tempo fa, per interromperlo che ero
appena a metà lettura. Non perché non mi piacesse, ma perché non
ero nello stato d'animo adatto. Non mi sentivo particolarmente
janeite e soprattutto stavo preparandomi per un esame particolarmente
malvagio. Ora, gli esami che sto preparando sono doppiamente orridi,
ma la metà che mi mancava di questo libro mi è scivolata sotto gli
occhi nel giro di mezza giornata, e l'ho terminato che erano passate
le 2 di notte, da quanto avevo bisogno di finirlo.
Superfluo
dire che consiglio entrambe le letture ivi presentate, ovviamente a
seconda delle esigenze. Le ho adorate entrambe, per motivi diversi.
Non
mi rimane molto tempo per pubblicare post con consigli Natal-tematici. Mi
spiace, perché mi sarebbe piaciuto pubblicarne tanti altri. Uno
sulla musica, ad esempio. Uno sull'arte. Magari, se mi sbrigo, riesco
a scriverne ancora uno prima della Vigilia, che considero il termine
ultimo. Il che non ha poi molto senso, visto che per il 24 ognuno
avrà terminato di prendere i regali, quindi la parvenza di utilità
di questa simil-rubrica è messa a dura prova.
Ma soprassediamo, no?
Prima
di tutto, L'armata dei sonnambuli dei Wu Ming, libro
che ho adorato e di cui ho lungamente parlato qui. Diciamola
tutta, lo considero un libro che non si può non leggere. È con
questo libro che mi sono approcciata ai Wu Ming, e ne sono felice. Un
po' perché la ricostruzione storica di un periodo, quello che segue
la Rivoluzione Francese, è davvero attenta e puntigliosa, e un po'
perché il punto di vista da cui parte la narrazione è... beh, è
diverso. La rivoluzione dei poveracci, mica di Lady Oscar. Con tutto
l'affetto che porto a Lady Oscar.
Sinistri
dei Tersite Rossi, edito da e/o, che ho recensito qui
un bel po' di tempo fa. Un fantapolitico ambientato giustamente in
Italia. Putiamo che le cose al nostro paese vadano ancora peggio.
Ipotizziamo un parossismo, neanche troppo spinto, di quello che
stiamo vivendo adesso. Le menzogne, la censura, l'omissione delle
notizie, la narrazione che ricostruisce la storia. Il Partito della
Felicità. La Banda dei Nove. Via, smetto di sproloquiarne, tanto ho
già linkato la recensione.
Sorprenderà
di trovarlo qui, ma credo che Nord e Suddi
Elizabeth Gaskell sia un buon esempio di romanzo da rivoluzione,
oltre ad essere uno dei miei romanzi preferiti in assoluto. Il fatto
è che, oltre la storia d'amore, oltre le vicende della famiglia
Hale, ci sono le vite disgraziate degli operai in fabbrica e le
scelte cui deve far fronte l'industriale Mr Thornton. Mette mestizia
il fatto che la Gaskell sia arrivata alla soluzione tanto tempo fa e
che ancora non sia cambiato nulla. Rimane il fatto che questo libro è
un capolavoro. Punto.
Non
può mancare La banda degli invisibili di Fabio Bartolomei.
Non può. Questo gruppetto di vecchietti non più arzilli che cercano
ancora, nel loro piccolo, di cambiare qualcosa. Di farsi sentire,
ecco. Oltre le risate, il divertimento, la simpatia dei personaggi.
Desolation Road di Ian McDonald è tanto un libro da 'revolution'. La
accoglie letteralmente nelle proprie pagine, la vediamo nascere,
crescere, ingrassare. Tutti i singoli meccanismi, fin da quando non
erano che semi sparsi nella trama quasi per caso. È ambientato su
Marte e ha la poesia del realismo magico. Ed è bellissimo.
Risorse disumane di Marina Morpurgo è una storia tutta italiana,
estremizzata per le conseguenze e divertentissima. Almeno, se non si
pensa al fatto che le premesse sono effettivamente vere.
Come un respiro interrottodi Fabio Stassi, uno dei miei scrittori
italiani preferiti. È un libro che... beh, è un libro bellissimo. E
in vari saltelli temporali racconta di quel periodo a me sconosciuto
in cui le persone credevano di contare qualcosa, di poter cambiare le
cose. E ci provavano. Quegli anni lì, prima del terrorismo. E c'è
una discussione, non ricordo precisamente in che punto, in cui
l'amarezza ha lasciato uno strappo, e da quello strappo comincia a
entrare la violenza. Non c'è solo quello, ci sono anche momenti di
sole – in molti sensi – di musica e di speranza. Comunque sia, io
lo consiglio barbaramente.
Il sabotatore di campane di Paolo Pasi, ovviamente. La storia
di un anziano che uccide per sbaglio un uomo, ma di cui un paese
intero intende negare la confessione. L'omicidio accidentale è
troppo semplice, e l'anziano è un vecchio anarchico. Deve esserci
per forza una spiegazione più ampia e complessa.
Sarebbe
imperdonabile non citare mezza bibliografia di Stefano Benni,
autore di cui ho parlato qui. Soprattutto Baol, ma
soprattutto anche Elianto, e soprattutto anche Spiriti e
Comici spaventati guerrieri, e soprattutto anche Margherita
Dolcevita, che temo di essere l'unica a preferire a tutti gli
altri. Benni è uno di quegli scrittori con cui sento un legame
particolare. Per assurdità, visione del mondo, ostinazione. Bisogna
leggerlo e basta.
E
direi che è meglio chiudere qui, che è meglio condensare i titoli
piuttosto che espandere il post fino a fargli perdere il succo. Non
sto a citare Hunger Games o perfino Harry Potter, anche se sarebbe
divertente chiacchierare del perché e per come due dei più grandi
successi editoriali dei nostri tempi trattino, tra le altre cose, di
ribellione a un potere che possiamo tutti concordare nel definire
palesemente fascista.
Va da sè che sarei ben lieta di accogliere i vostri consigli su siffatta materia.
E
dunque, mancano meno di due settimane all'arrivo del Natale, e io non
ho scritto che un unico, striminzito post di consigli librosi.
Spezzato a metà, peraltro, che ho intenzione di concluderlo qui e
adesso. Andiamo a incominciare.
L'ombra del vento di Carlos Ruiz Zàfon, che per me è un
capolavoro. Uno di quei libri che quasi ti rode andarti a cercare,
perché sono stati così sistematicamente consigliati, così famosi e
venduti, che la sòla deve esserci per forza. Non c'è. È un romanzo
bellissimo. Bello pure quello che lo segue, meno il terzo volume. Ma
se leggete solo il primo, sappiate che preso singolarmente è una
meraviglia che sa di pagine polverose e di vecchie librerie.
Quello
che avevo scritto di questo libro, Caro scrittore in erba di
Gianluca Mercadante, mi aveva attirato qualche critica in zona
commenti. Alcune sensate, alcune meno. Checché se ne dica, la mia
non è stata una stroncatura. È stata una lettura leggera e
divertente, e sulla scrittura non avevo nulla da eccepire. Solo,
avevo voluto dire la mia su un comportamento che non avevo gradito e
su un lato che emergeva, volente o nolente, dai personaggi
dell'autore. Ma il libro in sé non mi è dispiaciuto, anzi, quindi
se avete voglia di leggere le peripezie di un autore italiano,
consiglio di dare un'occhiata.
Angel
di Elizabeth Taylor mi era piaciuto veramente ma veramente un
sacco.. La storia di una
scrittrice di romanzi rosa la cui preparazione è assai carente e che
vive in un mondo tutto suo, dipingendosi continuamente illusioni
davanti agli occhi.
Sul
mio comodino stazionano felicemente, tuttora intonsi, ma non vedo
l'ora di metterci le manacce – è periodo di studio, la saggistica
non mi aiuta – Storia di uomini e di libri – L'editoria
letteraria italiana attraverso le sue collane di
Gian Carlo Ferretti e
Giulia Iannuzzi, La quarta rivoluzione – Seilezioni sul
futuro del libro di Gino Roncaglia e Il mestiere di
scrivere di Luisa
Carrada. Non li ho ancora approcciati, quindi non posso dirne
molto. Ma posso almeno notificarne l'esistenza.
Guai
a me se mi dimentico di citare e consigliare violentemente La
scrittrice criminale di
Marina Morpurgo, di cui avevo parlato qui. Davvero, è
stata una lettura divertentissima. E sommamente librosa.
La
principessa sposa di
William Goldman è una meraviglia e deve essere letto. Punto. Lo
consiglio visceralmente. La cornice è quella di un uomo adulto che
legge una favola al figlio, ma decide di cambiarla mentre la
racconta. Ma la cornice non è nulla, la storia in sé è stupenda. E
divertente. E assurda. E così fantasiosa e bizzarra... beh, comunque
ne chiacchieravo qui.
La
città dei libri sognanti di
Walter Moers. Altra meraviglia che non si può non leggere. In
Germania è considerato uno scrittore per ragazzi, coi suoi tomi
gonfi di parole difficili e mondi bizzarri, mentre qui si applica la
postilla 'dagli 11 anni' a libri di un centinaio di pagine, metà di
figure e con un carattere grandezza 20.
Mi
era partita la vena polemica, chiedo venia. È stato molto poco
natalizio.
Dicevo,
Moers è un genio, i mondi che disegna – e li disegna
effettivamente – sono assurdi, fantastici e meravigliosi. Non è
possibile chiacchierarne diffusamente in un post che è poco più di un elenco, ma vi ingiungo di dare
un'occhiata e giudicare da voi.
Le
illusioni perdute di Honoré de Balzac narra le vicende di
due ragazzi, entrambi amanti delle lettere, uno dei quali intende
diventare scrittore e fa di tutto per riuscirci, a Parigi. Non posso
rendere l'idea qui, ma posso giurare che si tratta di un capolavoro.
Non so se di Balzac preferisco questo o Papà Goriot. Vorrei che
fosse più semplice reperire le sue opere, però. In catalogo se ne
trovano giusto 4-5. Forse.
E
direi che la finirò qui, in bellezza, con Balzac.
Spero
di essere stata un minimo utile, e spero anche di riuscire a
sbrigarmi coi prossimi post 'All I want for Christmas'.
Io
intanto ho già ricevuto due libri e non posso aprirli fino al 24
sera. Dio, che sofferenza. Tra l'altro presumibilmente sono stata io
a richiederli espressamente, ma ne chiedo talmente tanti che finisco per
dimenticarmene, così poi non ho idea di quello che finirò per
ricevere.
Che
non è una brutta tattica, se volete provare il brivido della
sorpresa evitando le brutte sorprese.
Dovreste
vedere la pila di libri finiti da recensire, quella che tengo accanto
al computer. Si è fatta altina. Sopra, una manciata di libri finiti
da poco, in basso altri che, per gravità o per caso, attendono da
mesi di essere oggetto di un post, così da poter essere spostati
sugli scaffali. Non si illudano poi di approdare in porti più
salubri e organizzati, pure gli scaffali sono strabordanti e pieni di
pile. Ma questo i libri non lo sanno. Si preparino a un'amara
scoperta.
Pashazade
di Jon Courtenay Grimwood, tradotto da Chiara Reali,
terza pubblicazione della Zona 42, attendeva in mezzo alla
pila. Il peso dei libri che lo schiacciavano non è riuscito ad
attenuare il rigonfiamento delle pagine, laddove un temporale le ha
infradiciate.
Ordunque,
trattasi del primo romanzo ucronico che leggo. Dicasi ucronica una
storia ambientata nel nostro mondo, nella quale però un avvenimento
storico ha preso tutt'altra piega. In questo caso, la Seconda Guerra
Mondiale non ha mai avuto luogo, l'Impero Ottomano non si è mai
disgregato, gli equilibri mondiali non corrispondono ai nostri.
Se
volessi chiacchierare della trama affidandomi all'ordine cronologico
parlerei di Ashraf al-Mansur – o ZeeZee o Raf, a seconda del
momento – che è appena arrivato a El Iskandryia, in Egitto. Sotto
l'effetto di droghe, scombussolato, maleodorante.
Se
invece mi andasse di collegarmi all'ordine in cui la storia è
raccontata, parlerei dell'ispettore americano Felix che studia il
cadavere di una donna, appena ritrovato nella madrasa di
al-Mansur. E poi dovrei indietreggiare di pochi giorni, osservando
Ashraf a El Iskandryia, fino a trovarmi al punto di partenza, al suo
arrivo. Da lì in poi, si tratta di pochi capitoli, la storia filerà
regolarmente.
Uno
dei motivi per cui Ashraf si trova in Egitto è la macchinazione di
una lontana zia che vuole vederlo sposato alla figlia di una famiglia
ricchissima. Non che Ashraf o la suddetta figlia, Zara, siano
particolarmente d'accordo. Ashraf è quello che è, confuso e pieno
di ombre, con la volpe in testa che gli parla e gli dice cosa
fare. Zara ha studiato all'estero e avrebbe anche voluto rimanerci, e
frequenta di nascosto la parte più mondana e ribelle di El
Iskandyia. Ma il rapporto tra Raf e Zara non è importante, ai fini
della trama. È importante la piccola Hani, la nipote di zia Nafisa,
la donna che ha portato Raf in Egitto. È importante l'omicidio della
donna nel primo capitolo, sono importanti le indagini dell'ispettore
Felix, e soprattutto quelle di Ashraf. È interessante, più che
importante, il passato di Ashraf, quello che ha determinato la sua
fuga. È importante il padre di Ashraf, da cui ha ereditato lo status
di Pashazade, tanto alto da essere quasi intoccabile a El Iskandryia.
Mi
piace come Grimwood ha analizzato le possibilità di evoluzione
dell'Impero Ottomano – e del mondo intero – a partire da un
binario spostato nella nostra linea temporale. Il mondo che racconta
è plausibile, anche coi suoi personaggi sopra le righe e la sua
scienza un po' superiore alla nostra. El Iskandryia è una città
piena di contraddizioni, di distanze immense determinate dalla
posizione sociale, di minaccia e criminalità e di discoteche
sotterranee. Viene da chiedersi cosa succederà a El Iskandryia tra
dieci anni.
Tolta
la questione ucronica, è più un thriller che un romanzo di
fantascienza. Solo che oltre a non sapere cosa è successo alla donna
uccisa, si aggiunge la curiosità per il luogo in cui si sviluppa la
storia. Direi che gli elementi, in questo senso, sono davvero ben
dosati.
Quindi,
lo consiglio? E vorrei vedere. Certo che sì. Plurimamente.
Da
ieri c'è un bellissimo albero di Natale nel mio salotto. No, non quello della foto. Quello l'ho trovato su Internet. Ad ogni modo, la presenza di un qualsiavoglia segnale natalizio mi è fonte di
inenarrabile gioia. Non ha senso nascondere la foga natalizia che mi
prende ogni anno, infatti neanche ci provo. Sfoggio il mio spirito
natalizio come una cannellosa corazza contro i mali del mondo.
… più
o meno. In massima parte, canticchio 'Let it snow'.
Ordunque,
l'anno scorso avevo inframezzato i post di dicembre con qualche post
di consiglio sugli acquisti natalizi, setacciando i generi alla
ricerca di libri 'adeguati' ai diversi gusti.
Quest'anno
i consigli saranno un tantinello più... beh... a caso. Intanto, oggi
comincio coi libri che parlano di libri, che da qualche anno escono a
vagonate, e di cui non ho letto che una minima frazione, ma di cui
innegabilmente vado ghiotta.
Inizio
con il libro che sto leggendo, I cacciatori di libri di
Raphael Jerusalmy, tradotto (assai bene, per quel poco che posso capirne, essendo tradotto dal francese) da Federica Alba e pubblicato da
e/o pochi mesi fa. Denoto, e ciò è palese, che la copertina è
stupenda, tra le mie preferite in assoluto. E come colori, è anche
un pelo natalizia.
La
trama... beh, lo sto ancora leggendo, quindi non mi è dato di
entrare nello specifico, ma narra le vicende di François Villon,
poeta e farabutto, ambientate alla fine del Medioevo. La stampa è
stata inventata, e la possibilità di diffusione che comporta è
merce ghiotta per il sovrano di Francia. François e un amico sono
incaricati di prendere contatto con Johann Fust, collega di
Gutenberg, e poi di imbarcarsi verso Gerusalemme, in cerca di testi
rari, e poi... e così via. Abbiate pietà, sono ancora a un terzo
del libro. Ma è scritto – e tradotto – davvero bene, con cura e
dovizia di particolari. È una lettura 'bella', oltre che
interessante. C'è amore per le parole, oltre che per i libri.
Della
serie di Thursday Next di Jasper Fforde ho già
chiacchierato qui, e con estremo entusiasmo. È una lettura
imprescindibile per i bibliofili, è il nostro mondo ideale, quello
in cui i libri sono più che importanti, vitali. E poi è
divertentissimo. E surreale. E... no, dai, è fantastico. È da
leggere.
I
ferri dell'editore di Sandro Ferri non è narrativa, ma la
casa editrice e/o raccontata dal suo creatore. È un libro breve, che
ho divorato in poche ore. Ferri adora i libri e la propria casa
editrice, si vede. Svela qualche retroscena editoriale, e chi ha
voglia di saperne un po' di più, farebbe bene a procacciarselo.
Non
è narrativa neppure Come finisce il libro di Alessandro
Gazoia, di cui mi sono sperticata in lodi qui. L'editoria
e le sue mutazioni post-digitali, un sacco di chicche e di
informazioni più che interessanti. Assolutamente consigliato.
Libriomancer
di Jim C. Hines, edito il mese scorso da La Ponga Edizioni, ho finito di leggerlo pochi
giorni fa. È quello che mi verrebbe da definire un
urban-literary-fantasy, perché la magia di cui parla viene dai
libri. Cioè, prende forza dall'immaginario collettivo, di cui i
libri sono le porte. È svelto, scorrevole, combattimenti improbabili
e un sacco di citazioni. Un bel libro, il primo di una serie che
spero continui ad essere tradotta in italiano. Non posso però non
fare cenno alla traduzione piena di errori, e a una buona dose di
refusi, che spero gli editori correggano nelle ristampe.
Il
baco da seta è il secondo libro della serie di gialli di Robert
Galbraith, pseudonimo di J. K. Rowling. Del primo volume avevo
parlato qui, ammettendo che non mi aveva lasciata proprio
soddisfattissima. Non che fosse un brutto libro, ma dalla Rowling mi
aspettavo di meglio. Mi aspettavo questo libro, che mi è piaciuto
veramente un sacco, che non riuscivo a smettere di leggere. E le cui
indagini si intrecciano col mondo editoriale, con le sue stranezze,
le sue bassezze, i suoi personaggi bizzarri quando non indegni. Lo
consiglio estremamente, ma prima sarebbe d'uopo recuperare anche Il
richiamo del cuculo.
Crune
d'aghi per cammelli di Maria Silvia Avanzato, edito da
Fazi, è il racconto tragicomico di un'aspirante scrittrice
ossessionata dall'idea della pubblicazione. Ne chiacchiero un po' più
diffusamente qui.
Sarebbe
imperdonabile non parlare di Se una notte d'inverno un viaggiatore
di Italo Calvino.
Un capolavoro del meta-romanzo. E un capolavoro in generale, punto.
Una storia che si dispiega tra gli incipit, attraverso la ricerca di
una trama che sembra irrintracciabile. È stupendo, e ne ho
chiacchierato meglio qui.
E credo che sia il caso di finirla qui. Per adesso, almeno. Mi rendo conto di
aver ancora un sacco di libri sui libri da consigliare, ma non amo i
post troppo lunghi, men che meno quando sono io a scriverli. La seconda parte incombe, ovviamente.
Ed
ora, con estrema gioia, torno a I cacciatori di libri.
Ieri
sono stata a scegliere le nuove decorazioni dell'albero insieme a mia
madre. Che magari non è proprio l'incipit più adatto per una
recensione, però volevo farvi partecipi della mia immensa gioia.
Inoltre, credo che La felicità delle piccole cose di Caroline
Vermalle, tradotto da Monica Pesetti e edito da
Feltrinelli, sia uno dei libri più natalizi che io abbia mai
letto in tutta la mia vita. Non che ne abbia letti poi molti, e di
questo mi rammarico, perché per me l'atmosfera natalizia è una
droga. Inizio ad ascoltare White Christmas da novembre, e se a
qualcuno venisse in mente di scoperchiarmi il cranio, vi troverebbe
un tripudio di cannella e luci colorate. Non che me lo auguri.
Dunque,
questo libro mi è stato gentilmente inviato dalla casa editrice,
cosa di cui sono assai grata, perché altrimenti dubito che l'avrei
scelto in libreria, anche se effettivamente è il tipo di libro di
cui a volte ho bisogno. Le volte in questione sono i periodi in cui
devo preparare degli esami, quelli in cui mi sento un po' giù, o
semplicemente tra un libro 'impegnato' e l'altro.
Per
me, La felicità delle piccole cose è un film di Natale. Ma
veramente. Ha l'atmosfera, il linguaggio, il calore di una pellicola
da Vigilia. E trovo che sia stata una scelta inconsueta, quella di
unire questa atmosfera e questo linguaggio svelto e leggero al
sottofondo della trama. Pensavo di avere tra le mani un libro molto
diverso, quando l'ho iniziato. La stessa storia si sarebbe potuta
raccontare con tono grave, lenti sospiri di rassegnazione, stanze
buie e stagnanti di rimorso. E invece è una favola.
Ma
magari inizio a parlare della trama.
Dunque,
ci sono due linee narrative, quella dell'avvocato di successo
Frédéric Solis e quella della sua segretaria, Dorothée. Il primo è
ricchissimo, ma indebitato a causa della sua passione per i paesaggi
innevati degli impressionisti, che lo porta a spendere centinaia di
migliaia di euro alle case d'asta. La seconda studia legge, lavora
troppo, adora la sorella maggiore e nonostante il percorso di studi
vorrebbe in realtà fare la pasticcera. Capita che Solis riceva una
strana eredità, una specie di percorso a tappe per poter ricevere
qualcosa che sembra presentarsi come un quadro. L'avvocato chiede a
Dorothée di fare ricerche sull'uomo, un totale sconosciuto, che gli
ha lasciato una scatola che racchiude una mappa e qualche biglietto
del treno, e così anche lei si ritrova invischiata con la faccenda.
Il
modo in cui gli eventi si mettono in moto ha un che di meccanico,
all'inizio, e mi è capitato di storcere la bocca per poi ricredermi.
La macchinazione interna è ben congegnata, e la storia svelata dalle
ricerche di Dorothée e dai ricordi di Solis non è esattamente la
zuccherosa favola di Natale tutta canditi e campanelli che si sarebbe
portati a credere.
Il
tono è... beh, quello di una favola di Natale. Allegro, veloce,
ingenuo. Molto francese. Un po' troppo leggero per i miei gusti, ma
beh, de gustibus. Anche se devo dire che ho apprezzato la discrepanza
tra ciò che viene raccontato e il modo in cui è stato raccontato.
Ordunque
sì, è un libro che consiglio a chi brama un po' di atmosfera
natalizia, un libro leggero senza che non sia anche tralasciabile.
(Ho
una voglia di fare l'albero che non riesco neanche a esprimerla a
parole.)
Temo sia ormai assodato, che coi titoli non ci so proprio fare. Né il kajal né la birra calda hanno un vero e proprio ruolo in questo racconto, ma non sapevo proprio a quale altro elemento ancorarmi. Che dovevo fare, chiamarlo 'Streghe e vampiri'? 'Congreghe deludenti e vampiri spocchiosi'?
Ad ogni modo, posso solo augurarmi che la lettura non abbia effetti collaterali.
...
È
normale che le persone cambino, nel corso del tempo. O che diventino
persone completamente diverse, dopo che la loro vita ha subito uno
stravolgimento. Ma per quanto potesse trovarlo obiettivamente
ragionevole, Amelia non riusciva ad accettarlo. Non quando quello che
era stato per anni il suo migliore amico saltava fuori con l'idea di
cambiare nome in maniera così ridicola.
Senti
– sospirò, sporgendosi in avanti sul traballante tavolo di plastica. Lui era
già sulla difensiva, le braccia incrociate al petto, le labbra
strette – Non puoi chiedermi di non trovarlo ridicolo. Non sei
neanche mai uscito dall'Italia, che mi sta a significare
'Jean-Jacques'?
Una
volta sono stato in Francia. - borbottò Ettore 'Jean-Jacques',
abbassando il viso. I precisissimi boccoli biondi gli ricaddero
sulla fronte, velandogli appena lo sguardo.
In
gita scolastica. - puntualizzò lei, lasciandosi ricadere indietro
sullo schienale del divano mezzo sfondato – E comunque non è un
argomento valido. Hai un accento che sembri uscito da un film di De
Sica, ti pare possibile andarti a presentare come Jean-Jacques? Ti
prenderanno per il culo da qui all'infinito.
Non
è che come Ettore mi stia andando meglio. - sbuffò lui, lanciando
un'occhiata alla vetrina accanto a loro. Si ravviò i capelli, prima
di tornare a posare lo sguardo su Amelia, che lo fissava disgustata
– Cosa?
Non
ti rendi neanche conto di quanto ti abbia cambiato, vero?
Che
cosa? Jean-Jacques era solo un'idea...
Tutto.
Tutto. È da quando sei diventato un vampiro che hai iniziato a
trasformati in un... un tronfio snob che passa ore ad arricciolarsi
i capelli allo specchio. Dio, se solo fosse vero che non potete
specchiarvi.
Abbassa
la voce. - sibilò lui, lanciandosi occhiate dietro le spalle. Ma
erano rimasti gli ultimi avventori del locale, a parte l'anziano
imbacuccato a cinque tavoli di distanza da loro.
Ammetti
che sei cambiato, abbi il coraggio di quello che sei diventato.
Ettore
aprì la bocca un paio di volte, senza dire nulla. Abbassò lo
sguardo sulle proprie mani, che ora poggiavano sul tavolo dalla
vernice scrostata. Erano mesi che non tornava in quel locale con
Amelia, nonostante un tempo vi passassero intere nottate, persi a
chiacchierare del mondo che si era svelato ai loro occhi, o di quello
che sospettavano che fosse.
No,
non era vero, si corresse Ettore. Parlavano anche di altre cose. Di
musica, di film, di fumetti. Quant'era che non entrava in una
fumetteria? Non riusciva a ricordarselo. Da quando Vittorio l'aveva
trasformato era diventato tutto così diverso, veloce, fuggevole.
C'era quella brama di sangue che lo distraeva per ore, dopo il
risveglio, e la sua immagine allo specchio, così perfetta, che lo
incantava. E c'erano tutti i membri del loro Circolo, tutti così
forti, antichi, interessanti, perfetti nei loro abiti così belli e
stravaganti. Non voleva essere da meno, non voleva essere Ettore con
gli occhiali dalle lenti spesse e i vestiti spiegazzati di fronte a
loro. Voleva essere il raffinato Jean-Jacques, con la camicia candida
e le scarpe di vernice.
Sono
cambiato. - ammise, senza osare alzare lo sguardo – Lo so
benissimo anch'io che sono cambiato. Sto cercando di... non lo so.
Si
passò le mani sul viso, e si tirò indietro i capelli. Un attimo
dopo si diede dell'imbecille per averlo fatto, una piega così
perfetta rovinata da un momento di distrazione, ma si impose di non
osservare il proprio riflesso.
Sto
cercando di abituarmi alla mia nuova vita. Non è facile, è tutto
così diverso... ma vorrei essere accettato.
Posso
essere del tutto sincera?
Come
se potessi impedirtelo.
Cheppalle,
Ettore.
Ma...
Quando
mai hai avuto bisogno di essere accettato dal gruppo? Giravi con dei
maglioni che parevano un rave di tarme, ti pestavano un giorno sì e
l'altro pure, e adesso non riesci manco a tenerti il tuo vero nome
per fare colpo su un branco di redivivi con la puzza sotto il naso?
Dio, è così squallido.
Ettore
strinse le labbra e distolse lo sguardo. Erano amici da tanto, troppo
tempo perché potessero litigare per motivi tanto futili. Era stato
stranamente facile dire addio a tutti i suoi vecchi amici – non che
fossero molti – ed era ormai chiaro che per la sua famiglia era
morto. Forse era per questo che ci teneva così tanto, al suo legame
con Amelia. Aveva bisogno di qualcosa che lo tenesse ancorato al
mondo dei viventi, degli umani. O delle 'bestiole', come li chiamava
Eloisa, di tanto in tanto, per farlo irritare.
È
un gruppo di cui dovrò far parte per molto, molto tempo. - sospirò
il vampiro, tamburellando piano sul tavolo – Non penso che tu
possa capire.
Ah,
certo. Figuriamoci. L'eternità che si dispiega innanzi agli
Iniziati del Sangue. Che posso capirne, io, nella mia umile carne
mortale. - bofonchiò lei, portandosi il boccale di birra alle
labbra. Fece una smorfia trovandola calda.
Beh,
sì, è così. - ammise lui, alzando lo sguardo – Mi spiace
dirtelo, ma è così.
Amelia
sospirò con forza. Si passò una mano sulla fronte e posò piano la
birra sul tavolo. Faceva schifo. Ora che Ettore aveva ammesso di
essere cambiato, la sua irritazione si era dissolta, così come la
sua voglia di punzecchiarlo sui non-morti e le loro bizzarrie.
Sperava in una reazione diversa. Non riusciva più a fare
imbestialire Ettore come quando erano entrambi umani, quando bastava
un commento sarcastico per farlo saltare come un grillo con le zampe
in fiamme. Forse Ettore non riusciva più a rispondere alle sue prese
in giro con altre prese in giro perché la vedeva già morta, di lì
a pochi decenni, quando lui sarebbe stato ancora giovane e
indistruttibile. Forse per lui era già morta, in quanto mortale.
Non
voglio litigare. - sospirò infine, allungando la mano sul tavolo.
Ettore la raggiunse prontamente, stringendola. Amelia fece del suo
meglio per non rabbrividire a quel contatto gelido.
Neanch'io.
Sono secoli che non ci vediamo, non mi hai ancora detto niente della
Congrega.
Amelia
storse le labbra e tergiversò, arrivando a buttare giù un sorso di
quella birra disgustosa.
Beh.
Vorrei poter dire che il problema non sono loro, sono io. Ma
sticazzi, sono proprio loro. Sono noiosissime. La Congrega dei Mille
Fottutissimi Segreti.
Tipo?
Amelia
si aggiustò meglio sul sedile, facendolo scricchiolare. Si guardò
intorno, controllò che il barista fosse lontano e che stesse
pensando ad altro, che l'anziano avventore stesse ancora dormendo
dall'altro lato del locale, poi si sporse in avanti sul tavolo e
iniziò a lamentarsi.
Tipo
– sussurrò – Il fatto che non ci viene spiegato praticamente
nulla. Devi studiare con precisione assoluta come un certo rituale
vada eseguito, ma non ti dicono perché. Perché, ho chiesto l'altro
giorno, la ciotola d'acqua dev'essere ruotata in questo modo? Perché
deve essere di legno e non di rame? Ti credi che mi abbiano
risposto? Col cavolo, mi hanno guardata come se avessi chiesto se
potevo partecipare al rito con le mutande di Superman. E le altre
adepte! Come se fossi la scema della classe. Fottutissime hippie.
In
un altro momento, Ettore avrebbe fatto notare ad Amelia che non aveva
mai avuto nulla contro gli hippie, ma decise di astenersi,
limitandosi a darle delle piccole pacche sulle mani artigliate al
tavolo.
E
le streghe più anziane devi chiamarle 'Madre'! E le altre,
'sorelle'. Ma sono insopportabili e noiose e stupide... ce n'è una
che arriva in anticipo di mezzora per fare esercizi di
concentrazione e neanche ti saluta quando arrivi. E c'è quella che
si è fissata che vuole la bacchetta di legno di vite perché è
così che ce l'ha Harry Potter, e ancora non è riuscita a
fabbricarsene una!
La
bacchetta di Harry è di agrifoglio, non di vite.
Allora
sarà di un altro personaggio, chi se ne frega, non è quello il
punto. Il punto è che sono una dannatissima Congrega di streghe e
non ce n'è una che non sia totalmente rimbambita o noiosa come la
morte.
Sbuffò,
accaldata, e bevve un altro sorso di birra. Si gettò all'indietro
contro lo schienale, rischiando di sfasciarlo, e incrociò le braccia
al petto.
Sto
pensando di mollare. Di cercami un'altra Congrega. - buttò fuori
alla fine.
Non
dire cavolate, ti ci sono voluti secoli per entrare in questa. Non
ne troveresti un'altra così facilmente. E non è detto che ti
piacerebbe trovartici.
Lei
replicò con un'alzata di spalle, e dedicò il proprio sguardo al
mondo immobile oltre la vetrina del locale. Roma era buia e ferma, a
quell'ora. Erano quasi le due di notte, e il giorno dopo si sarebbe
dovuta alzare presto per andare a raccogliere delle erbe
'importantissime' insieme alle streghe 'sorelle'. Dopodiché sarebbe
dovuta correre a lezione, e poi a studiare per il rituale che avrebbe
avuto luogo pochi giorni dopo. Rilassò le spalle in un lento
sospiro.
Non
era così che me l'immaginavo.
E
io non mi immaginavo di farmi prendere in giro da un gruppo di
redivivi con più kajal che anima perché mi chiamo Ettore. E guarda
un po' – allargò le braccia, agitandole in modo che dalle maniche
della giacca di pelle spuntassero i polsini ricamati – Pizzo!
Cristo.
- fece lei, impressionata – Non credevo fossi già arrivato a
questo punto.
Forse
ho esagerato. Mi ha preso in giro perfino Vittorio.
Beh,
ha ragione. - annuì lei, accennando agli sbuffi di pizzo – Dalle
magliette dei Nirvana al conte di Fersen.
Già.
- fece lui – Facciamo così, io tento di recuperare un minimo di
me stesso in mezzo a tutti questi pizzi, e tu fai del tuo meglio per
iniziare a interagire positivamente con la tua Congrega. Ci stai?
Beh...
Se
non ci stai, da domani dovrai chiamarmi Jean-Jacques.
Allora
ci sto. Ma solo per il tuo bene.
Si
salutarono pochi minuti dopo, sollevati per essersi saputi ritrovare
nonostante le divergenze. Ettore si era offerto di riaccompagnarla a
casa, ma Amelia non sarebbe mai riuscita ad accettare che l'amico
esile che aveva difeso così tante volte fosse diventato una piccola
macchina da guerra in potenza. E poi le andava di passeggiare da
sola, per ripensare a quanto si erano detti, per studiare in che modo
avrebbe potuto presentarsi il giorno dopo all'incontro con le
sorelle. Aveva un disperato bisogno di argomenti di conversazione.
Vedeva le sue sorelle scambiarsi quotidianamente le foto dei loro
gatti e ricette di cucina crudista. Una andava matta per Jane Austen
e aveva chiamato il suo famiglio Darcy. C'era l'adoratrice di Harry
Potter, con la quale avrebbe potuto tentare un approccio, se non
avesse temuto di non riuscire più a scrollarsela di dosso. Un'altra,
la secchiona della meditazione, sembrava disprezzarle tutte allo
stesso modo, e forse era con lei che avrebbe trovato più punti in
comune. Avrebbe potuto studiare con più attenzione le
caratteristiche delle piante che avrebbero raccolto il giorno dopo, e
buttare qualche osservazione arguta.
Tornata
a casa, si infilò sotto le coperte senza neanche accendere la luce.
Programmò la sveglia alle sei, e gettò i vestiti e i buoni
propositi in fondo al letto. Accarezzò l'idea di non presentarsi
affatto all'incontro con la Congrega, di restarsene a letto a
crogiolarsi nella propria pigrizia, ma sapeva che sarebbe strisciata
fuori dalle coperte al primo trillo della sveglia. Se Ettore avesse
cambiato davvero il suo nome in Jean-Jacques, sarebbe stata costretta
a debellarlo dalla rubrica del telefono.
*Informazione di servizio: questo è un post moderatamente polemico. La blogger si scusa per le paturnie e adduce la dieta pre-natalizia come scusante. A tutti coloro che non hanno sparato allo schermo, buona lettura.*
Non
manco di libri da recensire, né della voglia di parlarne. C'è però
un argomento, non particolarmente originale, ne convengo, di cui non
mi dispiacerebbe chiacchierare, anche se deficito dei dati per farlo
approfonditamente. Diciamo che si tratta di un'impressione che mi
porta un ennesimo pizzico di scoramento. Potrei anche
contestualizzarlo riportando i dati sul calo dei lettori,
sull'identità di titoli e copertine, dell'accorpamento di trame.
Potrei, ma sono cose che ormai qualsiasi lettore, volente o nolente,
ha compreso e introiettato. Quindi mi (vi) risparmio il pippone
introduttivo e passo al fulcro del post.
Il
rischio editoriale. Più o meno.
Ora,
l'editoria è un'impresa. Con una responsabilità enorme, con
un'altezza incomparabile al resto dei comparti dell'economia, con
tutta la dignità che compete a ciò che è cultura, ma è
un'impresa. E come ogni impresa che si rispetti, dovrebbe contemplare
un certo rischio, nell'investire in qualcosa che non sia sicuro in
quanto replica, ma nuovo. In realtà credo che per parlare di un vero e
proprio 'rischio' dovrei fare riferimento a uno sperimentalismo
letterario difficilmente digeribile, quando invece per 'rischio'
intendo anche uno scrittore sconosciuto, la nascita di una nuova
collana o di una nuova casa editrice che non replichi i passi e il
catalogo di quelli già esistenti.
Non
sono informata su come funzioni nel resto dell'economia, chi segua
chi, chi rischi cosa, ma posso dire che non mi piace che
nell'editoria, almeno quella italica, il rischio di innovare se lo
accollino soprattutto le piccole case editrici. Quelle con meno
mezzi, quelle che non possono permettersi di fallire e che ovviamente
non hanno neanche granché da investire. Ecco, la mia – fastidiosa
– impressione è che le grandi case editrici seguano i passi
faticosamente portati avanti dalle piccole.
Porto
un paio di esempi, che altrimenti è pura fuffa.
George
R. R. Martin è l'autore delle Cronache del ghiaccio e del fuoco,
saga fantasy dalla quale è stata tratta la celebre serie tv Game of
Thrones. Tuttavia, il bel Martin aveva già pubblicato un buon numero
di libri prima di iniziare a scrivere di Westeros, e questi libri,
prima totalmente ignorati da Mondadori, sono stati pubblicati da
Gargoyle Books, piccola casa editrice romana. Alcuni di questi titoli
hanno avuto delle discrete vendite, ragion per cui Mondadori ha
seguito l'esempio di Gargoyle, pubblicando lei stessa altri libri di
Martin.
Lo
stesso è avvenuto con Joe Abercrombie, passato da Gargoyle a
Mondadori. Sembra quasi che la prima sia il reparto di prova della
seconda.
Avrei
un altro paio di esempi, che però preferisco tenermi per me. Un
tantinello vigliacco da parte mia, ma poiché non si tratta di impressioni
captate dal guardare le uscite, ma di conclusioni cui sono giunta
chiacchierando con persone interne all'editoria, ecco, meglio se me
le tengo per me.
È
però notorio che in Italia per 'fare colpo' sui grandi editori,
prima devi farti le ossa coi piccoli. Farti notare, crearti il tuo
seguito, proporti non più da aspirante, ma da autore pronto al
balzo. Non che io non comprenda la logica dietro questo metodo,
sarebbe impossibile per una grande casa editrice tenere dietro tutti
i manoscritti che arrivano. Anche se, come dire... se non loro, chi?
Ho
quest'impressione, che le grandi case editrici usino le più piccole come banco di prova, come simulazioni di mercato, e
proprio non mi va giù. Sono i grandi editori quelli con spazio di
manovra e possibilità di investire. Magari finora si è sempre fatto
così, e sicuramente è un metodo che funziona. Ripeto, non è che
non ne capisca la logica, né sto accusando i professionisti
dell'editoria di compiere chissà quale turpitudine, però non credo
sia il modo giusto di cercare talenti. Mi infastidisce che una
piccola casa editrice investa in un determinato autore, o in un certo
genere, che tramite passaparola e iniziative riesca a crearsi un
seguito attento e interessato, per poi vedere spuntare, a processo
finito, una grande casa editrice che ricalca le mosse di quella che
l'ha preceduta, raccogliendo frutti che non ha piantato.
Voi che ne pensate? Che sia normale così, che non ci sia nulla di strano, o che io veda cose che non esistono?
Ad ogni modo ci
sentiamo presto, per una nuova puntata di Cause Perse: Mulini a
vento, come fermare l'invasione?
(Ovviamente non mi riferisco a tutte le case editrici, né penso che queste passino le loro giornate a fare da segugio dietro ai successi delle più piccole. Trattasi di una tendenza che ho notato, non di una strategia totalizzante. Giusto per essere chiari.)
Qualche
tempo fa ho ricevuto una mail di Tiziano Scarpa, che mi chiedeva se
fossi interessata a ricevere in lettura il suo ultimo libro.
Prontamente ho risposto che sì, certo, volentieri. Avevo gradito di
molto Stabat Mater, e il libro che mi offriva stazionava nella
'Lista dei libri che mi sarei auto-regalata per il mio compleanno'. E
avendone da poco terminato la lettura, sarebbe d'uopo che io
iniziassi a disquisirne, a spiegarne i contenuti, la forma, il
'perché'. Invece mi prendo ancora una manciata di righe per spiegare
com'è che Scarpa mi ha contattata, che trovo la questione
interessante.
Mesi
fa ho recensito Come finisce il libro di Alessandro Gazoia,
saggio interessantissimo sulle ripercussioni del digitale e di tutto
quello che comporta sull'editoria. È anche tanto altro, e io ve ne
consiglio spasmodicamente la lettura, ma qui non spiegherò oltre,
che il post l'ho già linkato. Dicevo, nel suddetto illuminante
volume c'era un intervento di Scarpa che mi ha fatto girare le
brugole a mach 5, e per il quale nella recensione ho espresso il mio
cocente disappunto, con una sprezzante coloritura. Il mio intervento
è stato letto da Scarpa che, stupito da tanto spregio, ha deciso di
farsi sentire, cosicché un bel giorno mi sono trovata una
cortesissima mail dalla quale è scaturita una bella discussione. E
dunque, sì, è per questo che Tiziano Scarpa mi conosce. Perché
l'ho insultato sul blog.
Soprassediamo.
Come
ho preso lo scolo, pubblicato da Effigie nel settembre di
quest'anno, è una raccolta di saggi – cinque – ognuno dei quali
parte da un particolare evento capitato all'autore per via dei suoi
libri. Chiarifico, che non è facilissimo da spiegare. Non si tratta
di saggi sulla scrittura o sull'essere scrittori, ma racconti di
avvenimenti che non avrebbero avuto luogo se l'autore non fosse stato
uno scrittore. Non si fermano all'avvenimento, scivolano verso il
'perché' e il 'per come', e soprattutto verso il 'e poi',
soprattutto due di questi. È un po' difficile parlarne come se
fossero un tutto unito, quindi facciamo che divido il post per
capitoli.
Come
ho preso lo scolo
Su
questo non c'è molto da dire, è breve e divertente. Quello che
stupisce è il tipo di domande che deve vedersi rivolgere uno
scrittore da intervistatori... come dire, eccessivamente zelanti?
Nel
deserto con Monicelli
Così
come anticipa il titolo, qui Scarpa racconta di quando ha recitato
per un paio di scene nel film Le rose del deserto di
Monicelli. Monicelli è un pezzo di cinema che mi manca, così come
tutta l'enorme fetta di cinema italiano. Credo dipenda dal fatto che
non ho mai imparato a rispettarlo né ad apprezzarlo, il cinema
nostrano. Il suo sgretolamento è iniziato prima che io potessi
conoscerlo, e adesso andare alla ricerca del suo splendore mi sa di
archeologia, di ricerca storica più che di visione cinematografica.
Monicelli, però, devo recuperarlo. Lo sapevo anche prima di leggere
questo saggio, però ora lo sento almeno quel poco più vicino che
basta perché mi vada a procacciare qualcosa di suo.
Cosa
ho imparato in piazza
Mi
è difficilissimo immaginare cosa voglia dire abitare in un luogo in
cui, santoddio, la Lega è una forza maggioritaria. Sono cresciuta in
una delle cosiddette 'regioni rosse' e fino all'ultimo anno delle
superiori non avevo mai parlato con un leghista. Davvero. Per me la
Lega era reale come la versione razzista di Babbo Natale, e che
esistesse gente capace di ascoltare Borghezio senza scoppiare a
ridere per me era, e rimane, un mistero insondabile.
Ma
Scarpa è veneto e il Veneto è, come
buona parte del nord, zona leghista. Ed è inutile cercare di
nascondere o spiegare l'istinto che scalpita dietro la Lega, che
venga dalla paura, dall'ignoranza o dall'essere degli
incontrovertibili schizzi di guano. Razzismo, omofobia, la propria
cultura intesa in ogni sua minima manifestazione come una rocca
inespugnabile, e l'arrivo di culture altre come una minaccia che non
tarderà a esplodere. Il 'prima noi' che è espressione dell'egoismo
più bieco e disgustoso, impossibile da nascondere – per quanto non
siano pochi a tentare – con ragioni di economia, di mercato, di
territorio.
E
dicevo, in questo saggio, quello che più si arrovella e dispiega,
Scarpa parte da una manifestazione cui ha preso parte nel 2008,
insieme ad altri colleghi scrittori, che voleva riaffermare
l'accoglienza come valore. E parte dalla piazza in cui la
manifestazione ha avuto luogo per raccontare altre piazze, il potere
dell'amplificazione, le cronache sui giornali e i loro toni, la
radio. Passa per D'Annunzio, per Hitler, per Woody Allen col suo
discorso meta-filmico in Io e Annie, per Cultura convergente di Henry
Jenkins, che sto leggendo in questo periodo per la tesi – non è
strano come a volte i libri che leggiamo si intreccino e si
incontrino, quasi si fossero messi d'accordo? - e il suo saggio
dedicato al reality Survivor. Dai discorsi ai loro mezzi. È il
saggio più lungo del libro, ne copre quasi metà, e credo sia quello
che ho gradito maggiormente, anche se probabilmente è anche il meno
'leggero'.
La
realtà e le leggi
Per
chi non lo sapesse, Stabat Mater parla di un'orfana
nell'Ospedale della Pietà, ed è ambientato all'inizio del '700,
quando Vivaldi ha iniziato a collaborare con l'istituto. Non conosco
abbastanza compositori per poterlo affermare con ferrea
certezza, ma Vivaldi al momento uno dei miei compositori preferiti.
Non tanto per le sue Stagioni, ma per altre composizioni, che magari
linkerò in fondo al post. Il suo Stabat Mater, tanto diverso dalle
sue allegrie barocche, non manca mai di accompagnarmi nel tragitto
verso un esame particolarmente complesso.
A chi fosse interessato
alla vita di Vivaldi consiglio la lettura di questi libri, che
magari non sono particolarmente esaustivi, ma una buona infarinatura
la danno.
E
dunque, quando mi sono approcciata a Stabat Mater – poco dopo la
discussione con Scarpa, ero curiosa di leggere qualcosa di suo –
non sapevo di cosa parlasse. È stato bello ritrovare quel
particolare convento, e sapere che lo studio musicale delle allieve
precedeva di molto l'arrivo di Vivaldi. È stato bello conoscere
anche la protagonista, Cecilia, ma non è questo l'argomento del
post.
Dopo
la pubblicazione di Stabat Mater, Scarpa viene invitato a Napoli dal
'Comitato per il diritto alla conoscenza delle origini biologiche', e
viene a conoscenza delle regole assurde che regolano i diritti degli
adottati in Italia, della totale impossibilità di rintracciare i
genitori biologici, in contrasto con le legislazioni vigenti nel
resto del mondo civilizzato in cui, pur rispettando la privacy del
genitore, esiste uno spiraglio per poter porre delle domande, e
chiedere risposte. Qui, nulla. Muro, baratro, silenzio.
Chissà
perché, non sono stupita.
Disavventure
del mio nome
Comprendo
Scarpa, in quest'ultimo saggio. Il mio cognome è comunissimo nella
mia zona, anche se non posso vantare omonimi illustri come quelli
dello scrittore. Né mi è mai capitato di sentirmi attribuire
speranzosamente discendenze ignote, né l'omonimia con un ragazzo
deceduto.
Il
focus però non sta negli aneddoti, ma dalle varie considerazioni sul
valore del 'nome', che sono state al centro della discussione che ho
avuto con Scarpa, mesi fa. La responsabilità del nome, della sua
forza performativa, del valore che si inceppa nelle dichiarazioni non
firmate o siglate con uno pseudonimo. Il valore della
riconoscibilità, del cambio di idea che può celarsi dietro un
cambio di firma, e delle dichiarazioni che restano invece incollate
al dato anagrafico. E così via.
Invero
è stato curioso rileggere alcune argomentazioni su carta, anche se
ancora adesso non riesco a dirmene convinta. Le comprendo e penso sia
impossibile confutare la questione della responsabilità individuale.
Eppure non riesco neanche a vedere dimezzato il valore delle
affermazioni di chi sceglie lo pseudonimo. Non riesco a credere nel pieno
potere del nome anagrafico che si prosciuga nel nome fittizio. È
troppo semplice parlare di identità staccate che si avvalgono di uno stesso
corpo, e delle diverse funzioni che queste identità possono
ricoprire, senza sfiorarsi mai, è ovvio che la discussione non
può esaurirsi così facilmente. Scarpa parla di quello che si può fare
e non fare col suo nome reale, e ha ragione.
Eppure,
pur concordando che certe cose non si possono fare se non con la
propria identità anagrafica, non riesco a non pensare che altre
possano anche rimanere in un'unità confinata all'interno della
propria identità, senza che questo le sminuisca. Di certi blogger
conosco nome, cognome e viso, e lo stesso, con l'ausilio di google, può
dirsi per buona parte degli scrittori che leggo. Ma altri, come me,
scelgono piuttosto un nome fittizio. Se dovessi rispondere al perché
della scelta, davvero, non saprei che rispondere. È una ragione
puramente istintiva. La parte di me che dedico ai libri, mi viene da
dire, è 'mia'. È una parte altra, completa, che sta sotto il suo
nome, e mi fa strano vederla affiorare nella vita di Erica.
Forse sono semplicemente legata più al 'cosa' che al 'chi'. Il 'chi', per me, è accessorio.
È rilevante solo in funzione di altri 'cosa'. Le parole sono
indipendenti da chi le pronuncia o le scrive, è piuttosto quella
persona ad essere definita dalle proprie affermazioni. In questo, a ben vedere, sono in disaccordo con buona parte delle mie conoscenze, e me ne accorgo quando chiacchieriamo di politica o di società in generale.
Ma
qui rischio di non finire più. Credo che ognuno abbia una propria
percezione del tema 'nome', ma da dove venga questa percezione non so
dirlo.
Mi
riservo, ovviamente, di cambiare idea. Di nuovo. Come mi capita, del
resto, piuttosto spesso.
E
dunque, questi erano i saggi, uno per capitolo. Mi rendo conto che è
un post parecchio lungo, e plaudo a chi ha saputo raggiungerne la
fine. È stata una lettura interessante, nonostante il mio legame con
la saggistica sia flebile. Ho trovato diversi spunti
interessanti, dal racconto di un set cinematografico nel deserto alle
letture in piazza. Credo che questo sia uno dei post che ho impiegato più tempo a scrivere, ragion per cui salto gli svolazzi di congedo e filo a prepararmi il pranzo.