*Informazione di servizio: questo è un post moderatamente polemico. La blogger si scusa per le paturnie e adduce la dieta pre-natalizia come scusante. A tutti coloro che non hanno sparato allo schermo, buona lettura.*
Non
manco di libri da recensire, né della voglia di parlarne. C'è però
un argomento, non particolarmente originale, ne convengo, di cui non
mi dispiacerebbe chiacchierare, anche se deficito dei dati per farlo
approfonditamente. Diciamo che si tratta di un'impressione che mi
porta un ennesimo pizzico di scoramento. Potrei anche
contestualizzarlo riportando i dati sul calo dei lettori,
sull'identità di titoli e copertine, dell'accorpamento di trame.
Potrei, ma sono cose che ormai qualsiasi lettore, volente o nolente,
ha compreso e introiettato. Quindi mi (vi) risparmio il pippone
introduttivo e passo al fulcro del post.
Il
rischio editoriale. Più o meno.
Ora,
l'editoria è un'impresa. Con una responsabilità enorme, con
un'altezza incomparabile al resto dei comparti dell'economia, con
tutta la dignità che compete a ciò che è cultura, ma è
un'impresa. E come ogni impresa che si rispetti, dovrebbe contemplare
un certo rischio, nell'investire in qualcosa che non sia sicuro in
quanto replica, ma nuovo. In realtà credo che per parlare di un vero e
proprio 'rischio' dovrei fare riferimento a uno sperimentalismo
letterario difficilmente digeribile, quando invece per 'rischio'
intendo anche uno scrittore sconosciuto, la nascita di una nuova
collana o di una nuova casa editrice che non replichi i passi e il
catalogo di quelli già esistenti.
Non
sono informata su come funzioni nel resto dell'economia, chi segua
chi, chi rischi cosa, ma posso dire che non mi piace che
nell'editoria, almeno quella italica, il rischio di innovare se lo
accollino soprattutto le piccole case editrici. Quelle con meno
mezzi, quelle che non possono permettersi di fallire e che ovviamente
non hanno neanche granché da investire. Ecco, la mia – fastidiosa
– impressione è che le grandi case editrici seguano i passi
faticosamente portati avanti dalle piccole.
Porto
un paio di esempi, che altrimenti è pura fuffa.
George
R. R. Martin è l'autore delle Cronache del ghiaccio e del fuoco,
saga fantasy dalla quale è stata tratta la celebre serie tv Game of
Thrones. Tuttavia, il bel Martin aveva già pubblicato un buon numero
di libri prima di iniziare a scrivere di Westeros, e questi libri,
prima totalmente ignorati da Mondadori, sono stati pubblicati da
Gargoyle Books, piccola casa editrice romana. Alcuni di questi titoli
hanno avuto delle discrete vendite, ragion per cui Mondadori ha
seguito l'esempio di Gargoyle, pubblicando lei stessa altri libri di
Martin.
Lo
stesso è avvenuto con Joe Abercrombie, passato da Gargoyle a
Mondadori. Sembra quasi che la prima sia il reparto di prova della
seconda.
Avrei
un altro paio di esempi, che però preferisco tenermi per me. Un
tantinello vigliacco da parte mia, ma poiché non si tratta di impressioni
captate dal guardare le uscite, ma di conclusioni cui sono giunta
chiacchierando con persone interne all'editoria, ecco, meglio se me
le tengo per me.
È
però notorio che in Italia per 'fare colpo' sui grandi editori,
prima devi farti le ossa coi piccoli. Farti notare, crearti il tuo
seguito, proporti non più da aspirante, ma da autore pronto al
balzo. Non che io non comprenda la logica dietro questo metodo,
sarebbe impossibile per una grande casa editrice tenere dietro tutti
i manoscritti che arrivano. Anche se, come dire... se non loro, chi?
Ho
quest'impressione, che le grandi case editrici usino le più piccole come banco di prova, come simulazioni di mercato, e
proprio non mi va giù. Sono i grandi editori quelli con spazio di
manovra e possibilità di investire. Magari finora si è sempre fatto
così, e sicuramente è un metodo che funziona. Ripeto, non è che
non ne capisca la logica, né sto accusando i professionisti
dell'editoria di compiere chissà quale turpitudine, però non credo
sia il modo giusto di cercare talenti. Mi infastidisce che una
piccola casa editrice investa in un determinato autore, o in un certo
genere, che tramite passaparola e iniziative riesca a crearsi un
seguito attento e interessato, per poi vedere spuntare, a processo
finito, una grande casa editrice che ricalca le mosse di quella che
l'ha preceduta, raccogliendo frutti che non ha piantato.
Voi che ne pensate? Che sia normale così, che non ci sia nulla di strano, o che io veda cose che non esistono?
Ad ogni modo ci
sentiamo presto, per una nuova puntata di Cause Perse: Mulini a
vento, come fermare l'invasione?
(Ovviamente non mi riferisco a tutte le case editrici, né penso che queste passino le loro giornate a fare da segugio dietro ai successi delle più piccole. Trattasi di una tendenza che ho notato, non di una strategia totalizzante. Giusto per essere chiari.)