Prima di iniziare a parlare di Sindrome da panico nella Città dei Lumi di Matei Visniec, sento di dover parlare del torto che gli ho fatto. Quando l’ufficio stampa di Voland mi ha scritto per propormelo in lettura, avevo prestato alla sua sinossi giusto l’attenzione necessaria per non rischiare andare incontro a una ciofeca. Questo perché all’ufficio stampa avevo dimenticato di rispondere – mi identifico pienamente nella definizione di rincoglionita impenitente – quando mi aveva proposto un altro libro che mi interessava parecchio, Cronorifugio di Gospodinov, e accettare il primo mi sembrava la mossa più corretta per fare richiesta del secondo. Quindi quando è arrivato Sindrome da panico, non mi ero fatta nessuna aspettativa. Sapevo che era un libro che parlava di letteratura, e che quindi poteva rivelarsi una meraviglia o un tragico monumento di mediocrità. Pensavo che me l’avrebbero detto le prime pagine, e quando l’ho iniziato non avevo in mente di continuarlo, perché avevo la mente piena di tutt’altra storia. Volevo giusto farmi un’idea di che storia fosse. Erano le undici di sera passate, e io vado a letto presto. Ma trenta, quaranta, cinquanta pagine dopo ero ancora lì. A Parigi. A Bucarest. Nella testa dell’autore e sulla sua pagina. Mi era capitata in mano una meraviglia ed ero così entusiasta che devo pure averlo scritto a qualcuno.
Questo è uno di quei romanzi che corrisponde a un’esperienza viva a cui sei chiamato a partecipare. La mia lettura, per abitudine, si è fatta parecchio analitica. E so pure da me che ci perdo qualcosa, a compilarmi in testa una trattazione dell’uso della voce narrante, delle questioni lasciate aperte, delle incoerenze evitabili mentre dovrei lasciarmi prendere dalla storia. Ecco, quello che mi folgorava in Sindrome da panico era rendermi conto, qua e là, di una regola di scrittura bandita, stropicciata, sbeffeggiata dal fluire trascinante del testo. Era come giocare a scacchi con qualcuno che sapevi ti avrebbe asfaltato, senza che te ne importasse nulla. È importante giocare, divertirsi. Volendo potresti imparare qualcosa, anzi, tantissimo, ma lì per lì non te ne frega niente. Vuoi vedere quale assurda mossa farà il giocatore davanti a te non per replicarla, ma perché è divertente.
Parlo molto dell’esperienza perché la trama, tutto sommato, è un’entità sfilacciata, ma non come un maglione sgualcito. Piuttosto si ramifica, devia, si impenna, anziché percorrere un tracciato unitario, il caro vecchio arco narrativo che parte dall’inizio e si interrompe alla fine. La storia è questa: il protagonista, che è pure l’autore – che bella l’auto-narrazione fatta bene – ha lasciato la Romania poco prima della dissoluzione dell’Unione Sovietica, grazie a una poesia che è stata incredibilmente famosa per essere una poesia, al punto da diventare uno strumento politico, diplomatico, un peso importante nella contestualizzazione di quella che era la vita nell’Europa dell’Est, periferica sia rispetto all’Occidente che all’URSS. È arrivato a Parigi, e a Parigi è rimasto. Da bravo letterato, si è infiltrato, o almeno ci ha provato, nell’ambiente editoriale parigino, o almeno in una sua bizzarra e personale rappresentazione, che si fa sempre più irreale man mano che la storia avanza. All’inizio puoi ancora pensare di essere nel romanzo che ti racconterà di come Matei sia riuscito a conquistarsi un suo spazio nella letteratura europea, ma è un’illusione che scompare quando l’opera si scompone, i punti di vista si moltiplicano, i passi del protagonista non lo portano da nessuna parte, perché è esattamente dove deve stare, circondato da tutti gli strani personaggi che gli servono.
È una lettera d’amore alla
letteratura, e una lettera d’amore a Parigi. Le due cose, si vede
soprattutto alla fine, un po’ si assomigliano. Ma ci sono così
tante cose: c’è un capitolo scritto in prima persona dalla
prospettiva di una gobba, ed è una chiave di lettura per un capitolo
più avanti che racconta una favola che non sembra c’entrare nulla;
c’è un personaggio secondario consapevole di essere un personaggio
secondario; c’è un editore che non è proprio un editore, una
rivolta di parole, una masnada di scrittori disperati perché
incompresi e impubblicabili, un cane che ascolta i notiziari, lunghe
passeggiate, riflessioni su chi scrive, perché scrive, su quanto sia
folle scrivere pensando – davvero, dopo Kafka, dopo Balzac, dopo
Hugo – di avere qualcosa di significativo da dire. Ma non è una
trattazione pomposa, è un carnevale. E una grande presa in giro di
Matei verso Matei. E un funerale. E un’opera teatrale in cui alla
fine tutti si tolgono la maschera e sotto c’è lo stesso viso, ed è
lo stesso degli spettatori in tribuna. Un romanzo sulle frontiere, che siano tra stati, tra individui, tra realtà e finzione, in cui la letteratura ha inglobato la realtà regalandole possibilità infinite che sconfinano fino al lettore.
È un libro così vivo e così pieno che viene da pensarlo più come animale domestico che come oggetto. Lo metterò accanto a Mascarò e a Martin il romanziere, così si sentirà a casa.