Mascarò di Haroldo Conti è uscito a fine novembre per Exòrma edizioni, nella traduzione di Marino Magliani. A ricontrollare l’email, vedo che l’ufficio stampa mi ha contattata con largo anticipo, e che come al mio solito mi ci sono volute settimane per rispondere. La mia procrastinazione miracolosamente non si è allargata ai tempi di lettura, nonostante in questo periodo io sia lenta a leggere quanto non sono mai stata. Ho iniziato Mascarò che era appena arrivato, saltando la prefazione di Gabriel Garcia Marquez – recuperata a romanzo finito, dolorosa ed essenziale – e lasciandomi provare un’affinità istintiva per l’Haroldo scrittore scanzonato che emerge dalla sua introduzione. Haroldo accanto a Calvino, a meravigliarsi del mondo senza nascondersene gli orrori, ad amare il processo della scrittura, a ricordarsi che è tutto un gioco, che a prenderlo sul serio ci si toglie il gusto, che sacro non vuol dire per forza solenne, e che solenne non vuol dire per forza austero.
Haroldo Conti è nato nel 1925 a Chacabugo, in provincia di Buenos Aires. Studia filosofia, scrive sceneggiature per il cinema e per il teatro. Della sua vita non dico altro; meglio chiacchierare della sua filosofia di vita, di come traspare dalle chiacchierate tra il protagonista Oreste e il Principe di Patagòn, delle pagine bellissime in cui parlano del loro punto d’incontro, di quello che li rende l’uno simile all’altro – il richiamo del loro destino, sublimato nella Strada.
Mascarò è un’opera vagabonda, un romanzo rocambolesco e magico, in cui i personaggi sono ora se stessi e ora quello che scelgono di essere – forse quello che sono davvero, quello che sanno di essere davvero, anche se da fuori non li si potrebbe indovinare.
Mascarò, in un certo, piccolo senso, inganna: Mascarò è un personaggio che compare poco, il viaggio lo facciamo con ben altri vagabondi – che amiamo profondamente; ma sul finale del romanzo, quando l’opera cambia, e sospetto che il cambiamento dipenda dal mondo che cambiava intorno allo stesso Conti, a forzargli sulla penna un futuro più cupo, si capisce perché Conti l’abbia scelto per dare forma al titolo. Mascarò è personaggio – secondario – ma anche un indirizzo, una pulsione popolare che ribolle, la rivolta che si infiamma sotto lo scarpone che si crede vittorioso. La sua presenza mi ricorda un po’ quella di Antonio Banderas in Evita, una simbologia chiara e – scusate la pessima battuta – argentina.
All’inizio ci troviamo con Oreste in un piccolo villaggio di pescatori, impregnato in un’atmosfera statica, stagnante. Le prime pagine, lo ammetto, un po’ annoiano. Oreste è rimasto fermo a lungo in questo paesino, conosce gli abitanti, fa con loro la stessa vita. Osserva tutto, ma è un tutto che già conosce. Non vediamo l’ora che se ne vada, che si avventuri lungo un’altra strada, e Oreste non delude. Parte presto, il mattino che segue l’inizio del romanzo, su un battello carico di strani figuri; ci sono il Principe di Patagòn, Mascarò, il Nuno e altri bizzarroni. Le storie saltano dall’uno all’altro, su una nave c’è sempre tempo per scambiarsi il filo dei propri destini.
Mascarò è perlopiù la magia del viaggio, il coraggio dell’abbandono alla Strada, il passo che si mette davanti all’altro perché a un certo punto non riesci più a smettere. È l’apertura a tutte le possibilità che il mondo possa congetturare, il sogno realizzato di quando da bambini si vorrebbe scappare col circo ed essere liberi per sempre.
L’ambientazione è all’inizio quella di un’Argentina che pare antica, tra villaggi senza elettricità, zone spopolate, strane leggende, ma che man mano che si avanza, passata la metà del romanzo, inizia a maturare un contesto storico più vicino – si cita il 1943 come punto di un passato piuttosto recente, nell’ordine dei decenni, e Mascarò diventa contemporaneo allo scrittore che scrive.
Non so bene che altro dirne; mi viene da citare il vagabondaggio improvvisato di Don Chisciotte, ma hanno in comune soltanto l’approccio al futuro, l’idea di mettersi in strada senza una missione precisa se non quella di seguirsi e perseguirsi. Il realismo magico, quello c’è tutto. E c’è la politica, perché ogni romanzo è politico ed è ancora più politico il romanzo di un autore che sa quanto il mondo che ha intorno influenza la sua scrittura – un mondo che non importa quanto sembri solido, può sempre sbriciolarsi.
- Come hai cominciato a fare questa vita?
- Vuoi dire come sono nato, perché fino ad allora ero uno stronzo qualunque.
- E adesso cosa sei?
- Un Principe. Cosa credi? Sono padrone della mia vita e in uncerto qual modo sono padrone del mondo. Per questo mi dichiaro e mi presento come Principe, e posso farlo perché volerlo e deciderlo dipende solamente da me.
- Sei matto, ecco cosa sei.
- Se non ti decidi a fare così, sei già morto.