Quest'anno il Salone del Libro è stata una faccenda
piena; sono andata tutti i giorni, facendomela perlopiù a piedi da casa fino al Lingotto –
perché spendere soldi in biglietti della metro quando puoi spendere
in libri?
Il primo giorno, come raccontavo nello scorso post, l'ho
trascorso importunando gli editori nel pieno del loro lavoro col
Salone dell'Oca; il secondo me la sono presa più comoda, sono
arrivata al Lingotto nel primo pomeriggio e come prima cosa sono
andata alla ricerca della Plaza de los lectores, dove stava per iniziare
la presentazione dell'ultimo romanzo di Nona Fernandéz, Fuenzalida,
in uscita per Gran vìa.
Nona Fernandéz non l'ho conosciuta grazie a Gran vìa,
ma quando Edicola Edizioni, che avevo incrociato al Salone del Libro
di chissà quanti anni fa, mi ha spedito Space Invaders. Poco
dopo ho letto Mapocho, ed è lì che il mio amore per la
scrittura di Nona è esploso. Il suo modo di modellare le scene, di
sobillarle alla mente del lettore, quel rimando costante alla
storia del Cile come se fosse una storia personale.
L'incontro è stato alle 17.30 all'Oval – bello
spazio, da questo punto di vista gli organizzatori hanno fatto ottime
cose; tralasciamo per ora il resto – e sono riuscita ad assistervi
per miracolo, accaparrandomi l'ultimissimo posto libero in sala,
calpestando indegnamente le persone già sedute, – notare la mia espressione lieve, come quella di una lepre che si abbaglia dei fari di un'auto.
A intervistarlo c'era Giovanni Dozzini, giornalista,
traduttore e autore di E Baboucar guidava la fila, a lato
della sala Bruno Arpaia. Nona aveva un'aria sveglia e arzilla; ha un
viso un po' lungo, e la faccia di una persona che sorride molto. Il
giorno prima avevo approfittato di un passaggio del Salone dell'Oca
per ritirare la mia copia di Fuenzalida, speravo di leggerne
un po' per prepararmi all'incontro. Non ne ho lette che poche pagine,
il giovedì era stato troppo intenso, ma quelle poche pagine mi erano
rimaste impresse.
Non è un caso che l'incontro sia iniziato con una
domanda sul rapporto tra la storia del Cile e i romanzi di Nona;
scrive molto reportage, accanto alla sceneggiatura di telenovelas, e
a prescindere dal genere di quello che intende iniziare a scrivere,
prima o poi finirà per infiltrare la dittatura di Pinochet. Come mi
domandavo pure io – quanto diretto sarà il legame tra la
letteratura del secondo dopoguerra che riandava al conflitto, e la letteratura latino americana
contemporanea? – Giovanni ha chiesto a Nona come si approcciasse ai
suoi libri, se iniziandoli sapesse già quando la Storia avrebbe
iniziato a infiltrarsi nella storia. La risposta di Nona è stata
duplice. Molte volte, ha detto, inizia un romanzo proprio perché ha
bisogno di parlare di un aspetto della dittatura, altre si dice che
la terrà fuori dal libro, almeno questa volta, ma poi ne parla
comunque. La scrittura, dopotutto comprende il proprio punto di
vista, e quello varia a seconda della propria esperienza. Nona è
nata nel '71, e il golpe di Pinochet è stato nel '73; la dittatura è
parte della sua storia, “che mi piaccia o no”, ha aggiunto.
Un altro argomento di cui ha chiacchierato è la
creazione di personaggi malvagi fortemente umanizzati, mostrati nella
loro crudeltà e nelle loro debolezze, con cui è facile empatizzare
in mezzo all'orrore. Nona ha spiegato che le interessa raccontare la zona grigia in cui ci troviamo tutti, lontani dalle
semplici dicotomie buono-cattivo. La Storia racconta il male come se
fosse lontano, spogliando figure significative di quello che le rende
persone. I cattivi diventano date, battaglie, editti, istanze
sbagliate che con noi non c'entrano nulla. Ma i cattivi sono persone
come noi che hanno fatto una scelta. “E non è per giustificarli,”
ha spiegato “ma per far capire che la malvagità è un'opzione, una
scelta.”
Ha parlato della notte del '73, quando tanti hanno
festeggiato per il golpe bevendo champagne, di come nessuno si
aspettasse che la dittatura militare sarebbe durata 16 anni. La classe media
cilena all'epoca non aveva molto accesso all'informazione, era poco
istruita e aveva pochi mezzi per capire la portata di quanto stava
avvenendo. Il paese è scivolato in una dittatura dolcemente, senza
rendersene conto.
La domanda su Altaforte, a questo punto, era scontata. E
ci voleva, la trovavo necessaria. “In democrazia, dove può
arrivare la libertà di espressione?”
La risposta di Nona era quella che speravo; la democrazia dev'essere protetta, la libertà di azione deve trovare un limite. "In Italia sta accadendo quello che accade in Brasile, in Cile, in Argentina. Bisogna essere intolleranti con l'intolleranza, e mettere limiti a chi cerca di mettere dei limiti.”
La risposta di Nona era quella che speravo; la democrazia dev'essere protetta, la libertà di azione deve trovare un limite. "In Italia sta accadendo quello che accade in Brasile, in Cile, in Argentina. Bisogna essere intolleranti con l'intolleranza, e mettere limiti a chi cerca di mettere dei limiti.”
Il discorso è ampliabile, pieno di “ma”, “forse”
e ulteriori limiti da aggiungere ai limiti. Chi costeggia per
un motivo o per l'altro il mondo della letteratura, e soprattutto
dell'editoria, nelle scorse settimane ha assistito a un'infiammatissima
discussione politica come non se ne vedevano da anni. Intellettuali
che dibattono con altri intellettuali – e non – di cosa sia
giusto fare in una situazione delicata che impone una netta presa di
posizione sulla faccenda “propaganda fascista” e “diritto di
espressione”. Sono state giornate stranamente intense, in cui lo
scambio di opinioni fioccava nelle chiacchierate tra amici e sui
profili social di chiunque incrociasse anche per sbaglio il settore
culturale. Il mondo degli intellettuali è tornato a impregnarsi in
quello della politica, del fatto storico contemporaneo. E ci
aspettavamo tutti le reazioni dei Wu Ming, di Zerocalcare e di
Michela Murgia; ma poi la macchia d'olio si è allargata e lo sterco
ha iniziato a schizzare sul consiglio del Salone del Libro da ogni
dove, ed è andata com'è andata. Ci sarebbe da discuterne, ma c'è
chi l'ha già fatto tanto e ampiamente, mi limito a proporre ancora
un paio di link qui e qui.
Il problema, ha continuato Nona, è che quando Donald
Trump è salito al potere tutto il fascismo del mondo, tutta la
stupidaggine del mondo sono usciti dal vaso di Pandora, e sarebbe ora
di chiudere quel vaso.
Nona ha parlato anche della sua organizzazione metodica,
del suo lavoro di sceneggiatrice e come i linguaggi di un media
finiscano per incrociarsi con quello dell'altro, del lavoro del
lettore che non deve essere imboccato, ma che deve mettere del suo in
risposta a quello che scrive l'autore.
È stata una presentazione più affollata di quanto mi
aspettassi – la sala non era grandissima ma ripeto, l'ultimo posto
– ed è stata parecchio interessante. È sempre bello sentire
parlare gli scrittori di come scrivono, ma questa volta ho pure
trovato parecchio importante la discussione sul rapporto tra ambiente
e storia – e Storia.
Poi sono corsa a mettermi ordinatamente in coda per
ascoltare la presentazione dell'ultimo libro di Stefano Benni; un
autore che un po' mi ha cresciuta, quello di cui non mancavano mai i
libri in casa. Penso che ce ne sia uno in ogni casa di lettori, per
una delle mie coinquiline di Milano era Andrea Camilleri. Quando vedo
il Lupo, mi rivedo a sfogliare Spiriti alla fermata
dell'autobus, o nel magazzino della biblioteca a cercare quel paio di
libri che mio padre, chissà perché, si era dimenticato di comprare,
– Dottor Niù, Baol, Elianto – anche se gli piacevano
tantissimo.
È stata una presentazione interessante, voci e piano e
narrazioni; il Lupo sembrava stanco, il canto del piano e delle
pagine – è un libro polifonico in tutti i sensi, scritto in versi
per partitura – risuonavano forti in una sala grande. Ne sono
uscita un po' tramortita, esausta per il lavorio continuo delle mie
meningi, e sono filata a casa con le dediche di Nona e del Lupo in
borsa, un sonno pesantissimo e una strana voglia di rivedere The
Breakfast club e Buon compleanno, Elvis! di Ligabue in testa.
Giornata piena, giornata pesante. Difatti ho dormito
pesantissimo.