E
beh, mentre il mondo girava, ho compiuto gli anni. Un sacco di anni,
gli ultimi dell'ordine dei venti. L'anno prossimo salgo di livello,
mi vedrete al Salone del Libro in tailleur e ventiquattr'ore,
appiccicherò al blog una carta da parati pesante e allegherò un
puntatore fintamente sbarazzino.
(no,
ovviamente no, prevedo di trascorrere tutto il tempo che mi rimane su
questo piano astrale nel consueto allegro rimbambimento.)
E
l'andare dei festeggiamenti mi ha tenuta inusitatamente lontana dal
blog, il che è fastidioso perché si sono avvicendate tre letture
meravigliose, di fila, tutte di un'intensità spaventosa che mi
veniva da parlarne pure coi vicini.
Il
primo è stato Mapocho
di Nona Fernàndez, tradotto da Stefania Marinoni e
edito da Gran Via che
me l'ha 'sì gentilmente inviato – mille volte grazie.
Peraltro
mi ha piantato in testa il tema di una riflessione di cui ho
ciacolato lungamente qui, se avrete voglia di dare
un'occhiata. Cose intense e non troppo allegre.
Ma
veniamo al punto, che del libro ancora non ho detto nulla.
Mapocho.
Il Mapocho è un fiume in Cile, e non è subito chiaro cosa c'entri
con la trama. Voglio dire, la inizia, la costella, ma è più
collante che punto centrale. Il punto centrale è la Bionda, la
protagonista; il suo rapporto col fratello, l'Indio; la storia del
Cile, della sua dittatura, del suo sfaldarsi lento; uno storico che
si vuole impiccare, la costruzione di un ponte e di una mitologia
storica, un fiume di “si dice”.
Si
è capito qualcosa? Finora non molto, temo. Il libro, per quanto
scivoli dalla storia al realismo magico, al poetico e improbabile,
per quanto sviluppi la distruzione di un paese attraverso analogie e
metafore, è assai più scorrevole e comprensibile di quanto io non
possa renderlo.
La
Bionda è una donna cilena che ha lasciato Mapocho insieme alla madre
e al fratello Indio in seguito alla scomparsa del padre, quando erano
ancora bambini. Hanno viaggiato a lungo, e hanno poi finito per
separarsi, perché la madre non voleva permettere ai due figli
un'unione così completa; il rapporto tra la Bionda e l'Indio
travalica i confini della famiglia, tende al legame tra uomo e donna,
le loro identità si sovrappongono.
E
poi c'è un incidente, la madre muore e finisce in un'urna nelle mani
della Bionda che, separata ancora dall'Indio, viene raggiunta da una
sua chiamata che la implora di tornare a Mapocho. E lei torna, e la
narrazione si sdoppia.
C'è
la storia del Cile, c'è uno storico dai capelli bianchi che ha
ricevuto una lettera gonfia di dolore, ci sono leggende e mitologie e
ponti costruiti sui cadaveri.
C'è
l'orrore, e l'accettazione del dolore, e non so se una storia del
genere la si possa narrare usando altre parole, o una diversa
prospettiva; il mondo che brucia lo puoi raccontare con una fiamma,
non con un incendio. L'incendio non lo possiamo concepire, è troppo
da capire se non ci stai in mezzo.
Ho
adorato Mapocho, il susseguirsi delle parole sulla pagina. Ha
cliccato quel legame strettissimo che si crea solo qualche volta tra
libro e lettore. Manco sto a dire quanto lo consiglio, che diamine.