Il mio Salone autistico

Sono anni che non partecipo al Salone del Libro. Non ricordo se fosse il 2021 o il 2022, ma so che stavo seguendo un corso di Python, perché ho chiari nella memoria i fotogrammi di un ritorno a casa agitato, la sera – il corso iniziava alle 17 e finiva alle 21 – pensando agli incontri del giorno dopo. Tutto sommato già sapevo di essere autistica, ma mi mancava la diagnosi, che è arrivata un anno dopo. E senza diagnosi sì, lo sai razionalmente che la tua ansia è valida e legittima, che non hai bisogno di una convalida statale per ammettere di avere delle difficoltà. Lo sai ma non lo senti. Vivi la debolezza con un senso di colpa. E per quanto mi riguarda, mi sembrava pure di ingannare chi avevo di fronte. Per tanti anni, dopotutto, non avevo dato segni di cedimento. Mi sparavo i cinque giorni di Salone del Libro senza battere ciglio, da giovedì a lunedì, e mi stava benissimo. Il fatto è che dovevo ancora capire. Crescere, in un certo senso, acquisire la consapevolezza di come le persone siano tutte diverse, anche se si trovano nello stesso tempio ad adorare la stessa fumosa entità – i Libri, la Lettura.




È successo nel 2017, o 2018. Allo stand Mattioli accarezzavo le cover dei libri – che sono di quelle belle porose, if you know what I mean – e ho visto la faccia dell'editore, a disagio. Ora, di certo non è stato l'evento scatenante della mia nuova consapevolezza, ma me lo ricordo come una martellata dritto sul cranio. Non siamo tutti adepti, qui? Non siamo tutti fanatici feticisti sniffa-carta, divinizzatori delle entità editoriali? Quell'anno al Salone mi sono rifugiata in un angolo dietro uno stand. Qualcuno mi ha chiesto come stessi, credo. Ho risposto che stavo bene, credo. Non era una crisi di panico, ma un meltdown. Ne avevo un sacco, da adolescente. Confusione, una vaga angoscia, difficoltà ad articolare una sola parola. Passa. Passa sempre. Poco dopo sono riuscita a infilarmi all'incontro con Stefano Benni, mi sono fatta autografare il suo ultimo romanzo per mio padre che lo adora, e poi sono uscita, e mi sono incamminata verso casa, che da Lingotto è poco più di un'ora a piedi – non lavoravo e non volevo spendere neanche l'euro e qualcosa del biglietto, per risparmiare e portarmi a casa quanti più libri possibile.

Ho pianto per buona parte del tragitto. Non so se sapessi perché. Ora so che è stare in mezzo alle persone che mi devasta. E nel momento in cui ho capito intimamente che le persone al Salone non erano emanazioni dei libri, ha iniziato a pesarmi anche lì. Stanchezza mentale, la paura di non recuperare, la consapevolezza che, guardiamoci in faccia, questa cosa non cambierà. È il mio cervello che è fatto così.

E sia chiaro, questa non vuole essere una smarmellata pietosa. Potendo scegliere, rinascerei autistica. Per quanto mi riguarda – e va da sé, è autismo di tipo I, quello che sarebbe invisibile se ogni tanto non sbroccassi male – ci sono più vantaggi che svantaggi. Mi piace essere autistica. Neurodivergente è Neurodivertente. Mai, mai, mai farei a cambio. Sorry not sorry amici neurotipici.




Fatto sta che l'ultima volta che sono stata al Salone è seguito un mesetto di episodio depressivo piuttosto pesante. Scatenato da un'idiozia – è una cosa così stupida che me la tengo per me – ma tant'è, sono anni che non ci torno. E sì, un po' sono stati gli impegni, senza dubbio, un altro corso ben più corposo di quello di python, poi un incidente che mi ha ribattezzata Erica Culo di Ferro, e due mesi dopo l'uscita dall'ospedale un lavoro vero. Il blog è rimasto morto e inerte per anni. Se l'ho riaperto è solo perché sono tirchia: volevo tornare al Salone e volevo l'ingresso gratis.

Mi è rimasto a tremolare nelle ossa un timore che non credo riuscirò mai a scacciare del tutto. E se succede qualcosa che mi fa scoppiare? E se metto in imbarazzo uno o più editori? E se dico una stronzata come è successo l'ultima volta e mi tocca un altro episodio depressivo? Vostro onore, non me lo posso permettere, ora lavoro. E se esprimo un eccesso di entusiasmo verso gli editori e finisco per farli sentire a disagio, minacciati personalmente dalla mia intensità? Come glielo spiego che non ha niente a che fare con la loro persona, che io adoro l'entità pura e priva di corpo, riflessa nella coerenza del piano editoriale? È un po' come dire 'Non me ne frega niente di voi, siete solo degli umani – bleh – che si frappongono tra me e la vostra creatura', e non è proprio così, ma non riesco mai a controllare quello che dico e come lo dico, solo quello che scrivo. Le mie interazioni faccia a faccia sono un continuo editarmi – aspetta, non intendevo quello, ma-




Sarà un Salone stancante, ma in versione light. Un paio di giorni. Un paio di saluti.

Ho già una lista acquisti spaventosa. Il mese prossimo arriva la quattordicesima – non sarà un granché, mezzo stipendio a dire tanto – e voglio spararmela tutta agli stand.

Temo già che non basterà e dovrò fare delle scelte.

E se gli editori si offendono, se pensano che passo al loro stand per avere titoli gratis, e se-

Adoro la mia nuova psicologa. Prima di tutto è gratis, offerta dall'ASL per gentile intercessione del mio psichiatra – non voglio fare l'esegesi dell'ASL, ne ho mandate affanculo due di psichiatre prima di approdare a lui. Inoltre è arrivata dopo qualcosa come cinque anni di frequentazione del CSM, non proprio tempestivo. Ma è specializzata in neurodivergenze e ha tratti ADHD. Quindi, finalmente, c'è qualcuno che mi capisce davvero. Ne abbiamo parlato ieri, del Salone. Della mia paura di crollare. Di deludere aspettative che nessuno ha nei miei confronti.

Condividiamo lo stesso motto: “Zitto e nuota. Nuota e nuota”.

È così che prenderò questo Salone.

A un certo punto dirò qualcosa di sbagliato, oppure non riuscirò a emettere un suono in un momento in cui dovrei parlare. Andrò non-verbal? Forse. Devo ancora perfezionare lo scatafottermene completamente della mia performance sociale. Ma mi ci sto avvicinando.


Questo post non ha mezzo senso.

E me ne scatafotto.

Visto che progressi?