L'Arminuta di Donatella di Pietrantonio

L’arminuta di Donatella di Pietrantonio è uscito nel 2017 per Einaudi – nel 2017? Così tanto tempo fa? – e dev’essere più o meno a quel periodo che risalgono le prime esortazioni a leggerlo. Devono essere state su twitter, perché erano così brevi da non dirmi niente del perché, della trama, dello stile e quant’altro. Una pluralità di persone, nel corso degli anni, mi ha ripetuto che avrei adorato L’arminuta, sicuramente su internet, perché finché non mi sono trovata a rileggerne il titolo per riportarlo sull’Instagram, ho continuato a pensare che si chiamasse L’arminauta – che secondo me suona pure meglio, ma i viaggi in questo romanzo sono un po’ troppo contenuti per portare nel titolo un suffisso quale “nauta”.



L’arminuta vuol dire qualcosa come “la ritornata” in dialetto abruzzese, e si riferisce alla protagonista, nonché voce narrante dell’opera. A tredici anni, senza una spiegazione, viene riportata alla propria famiglia biologica, dalla quale era stata separata quando era troppo piccola per poterselo ricordare. Ne soffre molto. Si è abituata a una vita borghesotta, a una stanza tutta sua, alle vacanze al mare col solito ombrellone prenotato, ai vestiti nuovi, alle lezioni di nuoto e di danza. Si ritrova in una casa in cui nessuno la vuole, in cui si sente di troppo: non ci sono abbastanza letti, e deve dividerne uno sgangherato con la sorellina minore, Adriana; nella stessa stanza stanno gli altri fratelli: Vincenzo, più grande, che già lavora e la guarda in maniera troppo intensa, e Sergio che è una bestiola crudele. C’è anche un neonato, che però dorme coi genitori.

C’è una particolarità nella storia dell’Arminuta. Per un motivo o per l’altro, mi ha fatto pensare a Elsa Morante e a Elena Ferrante – che tra loro sono profondamente diverse, ne convengo: direi Elsa per l’intensità e Elena per lo stile secco, incisivo, misurato: non una parola di troppo, o una di meno, le immagini sono quelle giuste etc.

Ma L’arminuta non è un romanzo crudele, benché vi accadano molte cose crudeli. C’è miseria, c’è violenza, c’è un abbandono terribile e inspiegato imposto a una ragazzina nel modo peggiore possibile. Ma leggere L’amica geniale impone a un certo punto di sentirsi nauseati dal mondo, e non soltanto per Nino-omm’e’mmerda, cioè, non solo per quello che i personaggi si fanno a vicenda, ma anche per quello che si fanno da soli. Tocca guardarli scendere sulle proprie gambe nelle segrete in cui si tortureranno con le proprie stesse mani, sapere che si faranno del male perché è questo che fanno le persone se manca loro qualcosa.

 


In questo romanzo, no. Succedono cose orribili, crudeli, dolorose. Eppure quello che resta è una speranza solida, infrangibile, un legame puro. Adriana è più piccola di tre anni rispetto alla protagonista, ma ci mettono poco a diventare amiche. Adriana l’accoglie senza farla sentire di troppo, le insegna la vita a casa con una schiettezza che infrange l’estraneità. E a un certo punto basta questo per fare una famiglia, anche se sparuta, incompleta; non è l’unica, però. Ci sono affetti che sopravvivono alla distanza, a una caduta sociale, a una nuova vergogna. Mi ha fatto pensare a Il vecchio e il mare; una storia che sarebbe stata tragedia e nient’altro, non fosse stato per il modo in cui il pescatore, dopo le sue disgrazie in mare, si è affidato alla comunità, senza lasciarsi tentare dall’orgoglio – che è una brutta e stupida bestia, perché nessuno può fare sempre a meno dell’aiuto degli altri. Io almeno l’ho letto così.

È una recensione breve, questa, forse troppo breve e troppo personale perché si possa chiamare “recensione”. Ma L’arminuta è un romanzo breve, che volendo si legge tutto tra la mattina e la sera, e i fatti che si susseguono nella narrazione ordinata non sono molti. Sono pochi anni della vita di una ragazzina, con qualche evento che spicca sugli altri, e qualche momento di scarsa importanza che però è vissuto come importantissimo.