
Che
altro dire di siffatto titolo? Che l'amico Ernest l'ha scritto nel
1951, è stato pubblicato su Life l'anno successivo, che ha vinto il
Pulitzer nel 1953 e ha ampiamente contribuito a guadagnarli il Nobel
per la letteratura nel 1954.
Per
il resto, la trama è davvero semplice. Intanto premetto che,
una volta tanto, parlerò esplicitamente del finale, quindi chi non
volesse saperne nulla è avvisato. E lo so che stiamo parlando di uno
dei più grandi classici della letteratura americana, e perfino io
sapevo come sarebbe finito, – e io tendo a evitare il più possibile
di sapere alcunché di un romanzo prima di leggerlo – ma quello che
ho trovato è stato così diverso da quello che mi aspettavo di
trovare. Mi aspettavo una tagliola, ho trovato un cuscino di piume.
La
trama: un vecchio pescatore cubano, Santiago, esce in mare. È un
pessimo periodo per lui, non prende niente di significativo da
settimane, è stanco e acciaccato, il suo aiutante, il giovane
Manolin, è stato costretto ad abbandonarlo dai genitori, per unirsi
a pescatori più fortunati. Ma il rapporto tra i due è saldo, come
se fossero nonno e nipote e condividessero lo stesso sangue, e
Manolin si prende cura del vecchio negli atti e nel rispetto con cui
li compie, – il che, credo, è ancora più importante. E Santiago
dunque esce in mare, da solo, e si spinge al largo, e dopo
un'estenuante battaglia contro un marlin, la cui vendita gli avrebbe
permesso di vivere decentemente per tutto l'inverno, si vede
sottrarre la preda dai pescecani, e alla fine tutto ciò che riesce a
riportare a riva è la propria vita. La pesca l'ha sfiancato, la
lotta e la fuga dagli squali ha danneggiato lui e la sua
imbarcazione. Crolla sul proprio letto duro, nella sua umilissima
catapecchia.
Ed
è così che Manolin lo trova, per poi correre ad avvisare la
comunità, e poi si prende cura del vecchio e gli dice che tornerà a
pescare con lui, in barba a quello che vogliono i genitori. E, con
mia somma sorpresa, Santiago accetta. Accoglie l'affetto del ragazzo
e degli altri pescatori, il loro aiuto, e ricambia con una
gratitudine che non ha nulla di modesto, di vergognoso. È questo che
rende il finale di Il vecchio e il mare così luminoso, caldo, pieno
di speranza. Sì, è un vecchio con l'imbarcazione mezza divelta, che
ha combattuto per giorni e giorni per perdere tutto quello che aveva
faticosamente guadagnato a colpi di sangue e sudore. Ma tutto andrà
bene, perché il suo approdo è sicuro, e lui non si chiude, né
rifiuta, né si intestardisce. Se Santiago fosse stato orgoglioso,
sarebbe stato un finale tragico. Ma non lo è. È buono, e si aspetta
che lo siano anche gli altri. E questa cosa mi ha un po' commossa.
Forse
mi aspettavo una visione della vita assai più cinica e negativa da
parte di Hemingway per via del suo suicidio, ma quando scriveva Il
vecchio e il mare mancavano ancora dieci anni. Certo, non
che il romanzo racconti di un mondo perfetto, tutt'altro. Santiago è
abile, coscienzioso, conosce a fondo il mare e lo rispetta, eppure la
sfortuna lo perseguita, e se non è la sfortuna sono gli squali, coi
loro occhi vuoti e inespressivi, la loro cieca avidità. Ma Santiago
vive, e nonostante la sofferenza sia enorme, non se ne lascia
divorare. Santiago non è la sua sconfitta.
Ecco.
È un romanzo breve che ho vissuto come qualcosa di grande.