Stamattina ho sfidato il caldo e sono uscita a fare la
spesa, che il rischio di rimanere senza latte mi spaventa più di
qualsivoglia insolazione. Sulla strada del ritorno pensavo a uno dei
libri che ho in lettura, I ragazzi Burgess di Elizabeth Strout, e
ho realizzato che mi restano solo altri due romanzi da leggere della
Strout, poi dovrò vivere nella speranza che diventi improvvisamente
prolifica senza che la bellezza della sua scrittura ne risenta.
Questa consapevolezza un po' mi atterrisce, da quando ho letto Mi chiamo Lucy Barton, Elizabeth è diventata una delle mie scrittrici
di riferimento; se non so cosa leggere, o se mi trovo impantanata nel
blocco del lettore, scivolo verso lo scaffale della biblioteca in cui
mi aspettano i suoi libri. “Ora che faccio?”, mi sono detta lì
per lì. “Ne scrivo”, ho fatto presto a rispondermi.
I ragazzi Burgess è edito da Fazi, nella traduzione di
Silvia Castoldi. Ho pensato molto alla traduttrice, a quando si è
trovata alle prese col termine “entitled”, che non ha un
equivalente preciso in italiano. Sottintende l'essere viziati, il
sentire sballato del meritare qualcosa che non si è guadagnato, la
pretesa che il mondo ti imbocchi di tutto ciò che ti è dovuto,
anche se a conti fatti non ti si deve nulla. C'è un punto in cui
Susan Burgess ne parla con la sua inquilina, la signora Drinkwater, e
mi ci sono scervellata per un paio di minuti, interrompendo la
lettura già di per sé disturbata – sul regionale da Genova a
Torino, in bilico sulla seggiolina pieghevole davanti a un bagno che
mandava un olezzo tremendo.
Ad ogni modo, veniamo alla trama. La storia parte con
una cornice che ho amato; una scrittrice – penso la stessa
Elizabeth – parla al telefono con la madre, e le dice che vuole
scrivere dei ragazzi Burgess. C'è un breve scambio su un argomento
su cui mi sto arrovellando parecchio ultimamente, la letteratura che
si nutre delle vite degli altri, e poi inizia il racconto vero e
proprio. I ragazzi Burgess sono tre; il maggiore, Jim, è un avvocato
di successo e abita a New York con la moglie Helen, una perfetta
coppia di mezza età i cui figli frequentano l'università senza dare
preoccupazioni. Poi c'è Bob, cinquantuno anni, divorziato dalla
moglie Pam, con cui mantiene una bella amicizia, avvocato pure lui ma
senza eccessi di fama o di denaro. Abita non troppo lontano da Jim,
ha un rapporto molto stretto sia con lui che con la moglie; beve
troppo, passa le sue giornate a cercare di distrarsi da Pam che l'ha
lasciato perché non riuscivano ad avere figli e dalla consapevolezza
di avere ucciso suo padre per sbaglio, quando aveva quattro anni.
Insieme a Jim e alla gemella Susan era stato piazzato in macchina dal
padre, e per gioco aveva girato la chiave, accendendo la macchina e
finendo per investirlo.
(empatizzo parecchio col piccolo Bob, da giovane
scapestrata pure io ho girato per scherzo la chiave della macchina di
un'amica che stava seduta sul cofano, se non guidi sai assai che la
macchina va avanti, che diamine).
(la mia amica non si è fatta niente, la macchina si è
spenta prima di fare danni).
E poi c'è Susan, la gemella di Bob. Lei è rimasta nel
Maine, a Shirley Falls. Divorziata, vive col figlio diciannovenne e
l'anziana signora Drinkwater, a cui ha affittato una stanza al piano
di sopra. È una donna amara, non parla da anni con Bob, il rapporto
con la madre defunta è sempre stato un singhiozzare di offese e
reprimende. Non ha problemi con Jim, il fratello sano e di successo,
quello di cui ti puoi fidare e a cui ti affidi quando le cose vanno
male.
E quando vanno male, vanno male sul serio. A una
trentina scarsa di pagine dall'inizio del romanzo, il figlio di
Susan, Zachary, lancia una testa di maiale sanguinante nella moschea
di Shirley Falls durante il Ramadan, e Susan ha bisogno di aiuto per
sapere cosa fare.
Shirley Falls è nel Maine, e il Maine non è New York.
A volte ce lo dimentichiamo, di quanto gli Stati parte degli USA
siano diversi tra loro, anche agli antipodi. Forse ora ce ne rendiamo
conto un po' di più, perché la vernice brillante che ricopriva gli
USA si è scrostata col tempo, e tra i diabetici che muoiono perché
non possono permettersi l'insulina, i diritti umani dei migranti
sminuzzati e l'aborto sempre meno legale, beh, al sogno americano non
ci crede più manco Sandman.
Elizabeth Strout è nata nel Maine nel 1956, ma ne è
fuggita per stabilirsi a New York. Io da Torino un po' la capisco, e
credo che provi verso la sua città natale quello che proviamo tutti
noi che siamo espatriati dalla provincia. È un sentire strano, un
po' malinconico e un po' orripilato per quegli orizzonti troppo
vicini, che sembrano finire subito. Shirley Falls è il paesino di
provincia archetipico, e credo che Elizabeth ne abbia scritto dopo
essere scesa a patti col suo distacco, - è tornata a volergli bene,
è riuscita a capirlo.
Ad ogni modo, Shirley Falls è nel mezzo di una crisi
sociale; è diventata la meta di una grossa fetta di profughi somali,
e sappiamo bene che la Somalia è uno dei paesi messi peggio in tutta
l'Africa; guerra civile, povertà, un inquinamento dei mari che rende
impossibile la pesca, la fame, la pirateria etc. La gente che arriva
dalla Somalia viene dall'inferno, e ha difficoltà a integrarsi. Vive
una vita separata da quella degli abitanti di Shirley Falls, ma
questo non vuol dire né che diano problemi né che gliene vengano
dati. La comunità somala ha una vita tutta sua, parallela.
Il gesto di Zachary è deplorevole, e a nessuno viene in
mente di definirlo altrimenti. L'idiozia del suo gesto è così
palese da apparire lapalissiana, è sotto gli occhi di tutti. Ha
fatto una stronzata, e deve pagare, ma quanto deve pagare? O
meglio, quanto può permettersi di pagare? Ha diciannove anni,
nessun amico, e se gli si chiede perché ha fatto quello che ha
fatto, non sa rispondere. Scavando a fondo, qualcosa riesci a capire,
e quello che capisci ti fa venire voglia di dargli uno scappellotto e
abbracciarlo, non di lanciarlo in galera. È quello che vede Bob, e
quello che vede Abdikarim, un anziano somalo che fa da voce
all'intera comunità all'interno del romanzo.
I ragazzi Burgess parla di come Jim e Bob siano
fuggiti da Shirley Falls, di come Susan sia rimasta, della vita
matrimoniale di Jim e Helen, del costo del successo, di quanto sia
difficile vivere in un paese che non è il nostro. Parla di famiglia e legami, e di giustizia nel senso più ampio e umano del termine; di Bob che vive
per fare ammenda. Bob mi ha dato molto da pensare. Sono certa che
Elizabeth abbia amato davvero un Bob nella sua vita. Così forte da
essere debole, così buono da essere spietato. È un modello cui
aspirare, dall'inizio alla fine del libro. Se avessi metà della
fibra morale di Bob, mi andrebbe bene pure essere una mezza
alcolista.