Mettiamola
così: questo non è il mio primo incontro con Elizabeth Strout, ma è
come se lo fosse. Anni fa leggevo Olive Kitteridge dopo averne
sentito parlare benone, con aspettative altissime a fronte di pareri
entusiastici che mi giungevano da ogni angolo della blogosfera. Aveva
anche vinto il Pulitzer, che volevo di più? Solo che a lettura
terminata, la mia reazione è stata un puro “meh”. Olive
Kitteridge non mi aveva presa granché, vai a identificare il motivo
dopo tanto tempo; non che l’avessi detestato, ma non mi aveva
neanche entusiasmata, ed essendo il panorama letterario sterminato e
gonfio di capolavori che non avrò mai il tempo di leggere, perché
intestardirmi con un’autrice il cui indiscusso capolavoro sembrava
non fare per me?
Per
fortuna esiste twitter, e su twitter c’è chi posta stralci di
libri, citazioni, brevi commenti. E il caso ha voluto che mi
capitasse sotto gli occhi una frase presa da Mi chiamo Lucy Barton,
ultimo libro uscito in Italia della Strout, pubblicato da Einaudi
nella traduzione di Susanna Basso.
Ho
amato così tanto questo libro che l’ho divorato in poche ore, non
posso non far sapere a chi ne ha twittato la citazione che è
riuscita a ricucire il rapporto scrittore-lettore tra me ed
Elizabeth, con un filo spesso e solidissimo, – magari le linko ‘sta
recensione e via.
Dunque,
di che parla questo libro? Di Lucy Barton, ovviamente. In prima
persona, una trafila di ricordi connessi tematicamente e non
cronologicamente. Al centro del romanzo piazzerei il lungo soggiorno
in ospedale della narratrice dovuto alle complicazioni di una banale
appendicite. Lucy ha un marito e due figlie che la aspettano a casa,
la famiglia le manca moltissimo, in ospedale si sente sola, –
giustamente. E un bel giorno le capita in stanza sua madre, che non
vede e non sente da anni, convocata dal marito. È una situazione
strana, che vede l’avvicinamento di due donne che si conoscono
poco, che in comune hanno pochissimi punti. E Lucy torna coi ricordi
alla sua infanzia poverissima nel Maine, alla miseria, agli abusi
famigliari che a quel tempo e in quel contesto passavano per
educazione, ai rapporti con la sorella, col fratello, col padre, –
ma soprattutto con la madre. Lucy parla anche della scuola, di come
lo studio sia riuscito a trascinarla via dalla periferia dell’Impero
per rilasciarla sana e salva a New York, del suo primo amore, dei
suoi primi racconti pubblicati su una rivista, della sua successiva
carriera di scrittrice, di qualche rapporto significativo, anche di
quelli che sembrerebbero non valerne la pena. Alcuni capitoli sono di
una lunghezza “normale”, altri non durano che un capoverso,
soprattutto verso il finale. Certi raccontano con chiarezza
cronologica un fatto avvenuto nel corso della sua vita, altri sono
riflessioni intense e sferzanti, solitamente più brevi.
C’è
un aspetto di questo romanzo che lo renderebbe meraviglioso anche se
lo stile fosse scadente – e non lo è – se la storia fosse sciapa
– e non la è – e se i personaggi fossero figurini tralasciabili,
– diamine se non lo sono. Sto parlando della totale onestà di
Lucy, della sua nudità di fronte alla pagina bianca. Senza
imbarazzo, vergogna, senza nascondere nulla. Lucy si apre
completamente al nostro morboso scrutare, ci racconta senza veli chi
è, come e perché.
Se
ne leggono di rado, di libri così.
Comunque
se l’avete amato come l’ho amato io, mi viene da consigliarvi
Nessuno scompare davvero di Catherine Lacey.
Io
intanto vedo di recuperarmi la bibliografia della Strout, va’.