Non
so perché mi senta di specificarlo, ma di rado scrivo i miei post in
pigiama. Il solo vestirmi basta a svegliarmi, a mettermi in una
condizione mentale più o meno sufficiente alla recensione; e poi,
non so, lo vedo come un passo necessario per farmi prendere più sul
serio dai libri di cui intendo chiacchierare. Posso mica parlarne nel
mio pigiama con l'orsetto, no? Ecco, oggi fa freddo. Fa un freddo
infame da un paio di giorni, e ho scoperto che il freddo quest'anno
lo sopporto poco e male. Quindi recensioni brevi in pigiama e sotto
le coperte, e sarà un dramma vestirmi, lavarmi e uscire. Diamine.
Malinteso
a Mosca di Simone de Beauvoir – traduzione di Isabella Mattazzi –
Ponte alle grazie, 2014
Simone
de Beauvoir soffre del peso della propria fama; una scrittrice del
'900 francese, che è diventata classica ancora prima di morire; lei
e il suo sodalizio con Sartre. Ecco, c'è quell'alone di cultura e
pensiero critico che un po' tiene alla larga chi come me legge per
stare bene e non ha voglia di arrovellarsi troppo. Solo che Sorella,
a Londra, s'era portata dietro Memorie di una ragazza perbene, e me
ne parlava con entusiasmo, rassicurandomi sulla leggerezza della
scrittura. Dunque ho arraffato uno dei primi volumi della Beauvoir
che ho visto in biblioteca – scegliendo, come mio solito, uno dei
meno famosi.
Malinteso
a Mosca è un libro piccolo, agile, svelto, che narra una storia
parimenti piccola. Ci sono questi due coniugi sulla sessantina,
Nicole e André, due intellettuali che si recano a Mosca per far
visita alla figlia di lui per qualche tempo. Sono una coppia di
quelle belle, che parlano e discutono e accolgono le reciproche
parole con curiosità e interesse; si perdonano, si appassionano,
nutrono una fiducia non cieca ma consapevole nel loro legame. Solo
che durante il soggiorno a Mosca iniziano ad affastellarsi assieme
dubbi, sospetti e, come da titolo, malintesi, e le piccolezze
finiscono per farsi più grandi e fare male.
Tutto
qui. Davvero, tutto qui. Eppure è stata una lettura curiosamente
dolce, del giusto grado di intensità e davvero piacevolissima. Di
certo è interessante il modo in cui i punti di vista si rimpallano,
in cui ogni evento viene vissuto due volte, e in modo nettamente
diverso da André e da Nicole. Ma si ha l'impressione che la Beauvoir
non volesse dimostrare nulla a nessuno con la sua scrittura, capite?
Romola
di George Eliot – traduzione di Sara Donegà – Barbés, 2009
Questo
è il quarto libro scritto da George Eliot – cioè Mary Ann Evans –
e il terzo che sono riuscita a procacciarmi e a leggere. Con grande
tristezza, ammetto che è pure quello che mi è piaciuto meno, al
punto che ho fatto una certa fatica a finirlo, e ho pure saltato un
discreto tot di capoversi. Allora, inizio col dire che io George
Eliot la adoro; Middlemarch e Il mulino sulla Floss sono imperituri
capolavori, e diamine se è il caso che li recuperiate – voglio
dire, se vi piacciono i classici inglesi.
Ci
sono grosse differenze tra quelle meraviglie e Romola, però. Intanto
Il mulino sulla Floss e Middlemarch sono romanzi ampi, corali, in cui
una moltitudine di personaggi concorrono non solo a un filone
principale, ma soprattutto alle proprie storie private; e sono tutti
imperfetti e colpevoli di essere umani, ma ci si affeziona a tanti, e
più o meno si capiscono tutti. Romola invece ha pochi personaggi,
nessuno particolarmente interessanti e uno dei protagonisti
sommamente sgradevole. Non ci si affeziona a Tito che è un po' un
infame, ma non ci si affeziona neanche a Romola, così perfetta.
L'ambientazione
non è delle mie preferite; siamo nella Firenze di Savonarola, tra la
fine del '400 e l'inizio del '500. E l'autrice ci tiene a
descrivercela nei minimi dettagli, a farcela scoprire attraverso
lunghi dialoghi tra gli intellettuali presenti – Pico della
Mirandola, Machiavelli... - che possono durare anche pagine intere.
Consideriamo pure che molti personaggi principali sono filosofi e
vivono tra politici ed eruditi. Non è proprio una lettura scorrevole
e leggera, ecco.
Oltretutto
la trama pare mettersi in moto dopo circa 200 pagine; prima è
difficile presagire cosa accadrà, il prologo è lento e, lo ammetto,
in buona parte tagliabile.
La
trama, dunque, in soldoni. Che si può dire per non rovinare la
lettura, visto che la vera storia si avvia a un punto così avanzato
del libro? Romola è figlia di un erudito fiorentino ormai cieco,
amareggiato per la fama che non l'ha mai raggiunto, divorato
dall'ambizione di aprire una biblioteca in proprio nome. E poi c'è
Tito, sputato fuori dal mare dopo un naufragio, un bellissimo giovane
greco che riesce a farsi largo tra gli eruditi di Firenze, grazie
soprattutto alle intercessioni del padre di Romola, che vede in lui
un figlio di cui fidarsi e che potrà portare avanti il suo lavoro. E
poi ci sono i tumulti di Firenze, c'è tanta ambizione, c'è una
vendetta che cova nel passato di Tito. La trama si sviluppa nel corso
di diversi anni, vediamo la città cambiare, le condizioni dei
personaggi variare. Da un punto di vista storico è davvero
interessante, soprattutto considerando che la Firenze di Romola è
quella che si immaginavano gli inglesi nell'800.
Non
è una lettura leggera, né particolarmente piacevole. Ma è George
Eliot.