Libri per sovvertire il reale #3

  Questa è la terza puntata di quella che ho deciso essere diventata una rubrica di natura profondamente caotica (le prime due sono qui e qui). Sulla sovversione del reale, stavolta metto un paio di asterischi: a seconda di cosa uno faccia o dei propri interessi, è più che possibile viva già in un reale ribaltato, che ha già acquistato quel senso che si vede condiviso nei libri di Marta e Simone Fana e di Marco Bersani. Tuttavia, viviamo in un ambiente mediale che riproduce narrazioni molto diverse di questo nostro reale, e soprattutto in un contesto mainstream che si guarda bene dall'ampliare l'inquadramento ideologico e politico, con tutte le eccezioni del caso, come possono essere appunto le comparsate di Marta Fana in televisione. Per il resto, riprendo l'introduzione della rubrica così come l'ho pensata per la prima volta qualche mese fa:

sono giunta alla conclusione che non esista un’opera letteraria che non sia politica – perché l’idea che l’autore ha del mondo è politica e il ritratto che fa della realtà non può prescindere da quell’idea, più o meno consapevolmente. I titoli che vado a presentare partono da un dubbio, dalla volontà di svellere i cortocircuiti interpretativi che come società tendiamo a dare per scontati. Partendo dal momento storico in cui è nato il malinteso interpretativo, ne ribaltano la prospettiva per sviscerarne le conseguenze e stabilire i legami tra causa ed effetto. Insomma, nel mezzo di una partita a scacchi dicono “Fermi tutti, quelle sono le pedine della dama!”. E va da sé, ogni volta che parliamo di lettura del reale e prospettiva siamo piagati dalla visione che abbiamo del mondo; magari gli autori dei titoli non hanno sempre e del tutto ragione, potrebbero anche non essere pedine della dama, magari sono quelle del backgammon, ma hanno sicuramente ragione nel dire che non sono scacchi – che cosa siano, quello bisogna scoprirlo da sé.

 

Panarchia – Un paradigma per la società multiculturale a cura di Gian Piero de Bellis

 


sovverte il reale presentando una serie di saggi provenienti da diverse zone geografiche e periodi storici, ma che girano attorno a due temi: quello che è stato e quello che potrebbe essere; parte dalla genesi del concetto di panarchia nei suoi primordi, in un saggio del 1591, in un articolo dell’economista liberale Gustave de Molinari del 1849, in una trattazione del naturalista De Puydt nel 1860; alla sua rinascita e ripresa nel nostro contemporaneo, e nei decenni appena precedenti; i principi della panarchia sono brevi, sensati, universalmente condivisibili: poiché la società si riproduce come internamente divisa in una pletora di ideologie, prefenze religiose e di organizzazione profondamente diverse le une dalle altre, e questo non porta che a una frammentazione ancora più grave, non ha senso che sia la nostra nascita e permanenza in un dato territorio a fare di noi cittadini di un dato governo: secondo principi di volontarismo e autodeterminazione, la panarchia andrebbe a rispondere all’esigenza umana di stare comodo nella propria organizzazione statale, e questo è per “quello che potrebbe essere”; ma il testo si sviluppa anche nella dimensione del reale, offrendo esempi di organizzazioni non territoriali, come queste si regolino o si siano regolate: qui l’approccio è più storico che antropologico, sociale, politico, e va dimostrare l'evidenza di quella che si configura come una vera e propria possibilità; e quello che stupisce, di questo insieme interconnesso di idee e proposte autonome, è assurdamente la sua sensatezza: chi non vorrebbe un mondo in cui chiunque può scegliere davvero a chi fare riferimento, a quali regole dovrà sottostare, a quali programmi destinerà le proprie tasse? Dunque lo stupore non è generato da quanto esposto dal libro, che appare perfettamente coerente, ma il contrasto con una realtà che si basa su presupposti antiquati, dannosi, di cui non ci siamo ancora disfatti come si fa con le cose vecchie che non servono più a niente.

 

Basta salari da fame! di Marta e Simone Fana

 


sovverte il reale ribaltando la prospettiva della narrazione sulle politiche economiche del nostro paese, delineandone gli attori e gli interessi seguendone conseguenze – chi ne esce sconfitto e chi vincitore; le mette a confronto con quelle di altri paesi (quelli, ad esempio, in cui esiste un salario minimo) e con le politiche del nostro stesso passato, quando la coesione delle istanze sindacali e l’esplicitazione del conflitto di classe riuscivano a mobilitare le masse dei lavoratori, livellando il rapporto di potere con le aziende; racconta in punti e tappe brucianti l’erosione dei diritti dei lavoratori, dalle rivendicazioni del secondo dopoguerra alla sconfitta del movimento operaio durante la marcia dei 40.000 impiegati in difesa della FIAT; arriva al presente e ce lo racconta come molti di noi lo conoscono, precarizzato, sommerso, sempre in bilico. Marta e Simone Fana affrontano in modo chiaro e lineare, sebbene in certi punti un pelo tecnico – d’altronde si parla di economia e mercato del lavoro, la lettura dei dati deve pure offrire un fondamento – l’incidenza delle politiche liberiste e neoliberiste sulla nostra economia, riflettendole sui loro capisaldi, che sono spiegati più nel dettaglio nel prossimo libro.


Catastroika – Le privatizzazioni che hanno ucciso l'economia di Marco Bersani



sovverte il reale ma soltanto un po’, perché è un reale che stiamo vivendo nel suo momento più profondo, a otto anni dall’uscita del libro; è un reale di cui si fanno tante narrazioni, e se non le abbiamo conosciute tutte, di sicuro ne abbiamo incontrate tante, anche se a volte è una narrazione così sottile che a malapena te ne accorgi; è dopotutto il caso del neoliberismo, una teoria economica che, spacciandosi per scienza, è riuscita a impiantarsi nel funzionamento profondo della quasi totalità dei paesi industralizzati, e che al momento si configura come una morsa di metallo sugli zebedei della democrazia; è quella cosa dietro ogni “ce lo chiede l’Europa”, dietro ogni “non ci sono i soldi”, privatizzazione, politica di austerity, deregolamentazione del mercato del lavoro, manovra pensionistica etc; è una teoria vecchiotta, che si fonda nei primi decenni del ‘900 e riesce a sopravvivere dignitosamente fino alla pubblicazione nel 1962 di Capitalismo e libertà di Milton Friedman; è stato nel Cile di Pinochet, nella dissoluzione dell’URSS e nella conseguente povertà diffusa, nell’Argentina che sembrava inaffondabile, nel Regno Unito post-Thatcheriano e nella sua crisi dei servizi; è ancora qui, e ci sorride smagliante ogni volta che- beh, per quello c’è il libro sopra.

Signora mia, io non lo so come facciamo a stare ancora in piedi. Meno male che ci sono i Clash.