La tua bellezza di Sahar Mustafah

 La tua bellezza di Sahar Mustafah, edito da marcos y marcos nel 2020 nella traduzione di Francesca Conte, è stata una lettura inaspettatamente veloce, scorrevole al punto da definirla leggera, anche se la trama non ha molto di leggero, considerate le tematiche affrontate, e me lo sono bevuto in due giorni, forse tre, con tutte le sue trecentocinquanta e passa pagine.

Come credevo che fosse: non me ne ero fatta un’idea granché precisa, anche se ne avevo sentito parlare. Sapevo che sarebbe stato intenso, immaginavo un profondo impatto emotivo, e che avrebbe aggiunto qualcosa a quel poco che conosco dell’Islam non tanto come religione, bensì come viene vissuto da coloro che credono, elemento plasmatore della quotidianità che viene a sua volta riplasmato dal singolo, perché si aggiusti in un sistema di valori e credenze che non può che essere personale.

Come è effettivamente: una volta tanto, posso dire di averci preso abbastanza, ma mi chiedo anche se non sia anche questa una forma blanda e inoffensiva di pregiudizio. Voglio dire, solo perché l’autrice ha un nome arabo deve per forza scrivere di Islam? C’è da dire che per quello che ho letto finora – che non è molto – è quasi una regola, anche quando si tratta di romanzi scritti da autori agnostici, come mi pare sia Amara Lakhous. Il fatto è che quando si racconta di musulmani che vivono in occidente, non si può non parlare di islamofobia che, se non è proprio imperante, è quantomeno estremamente vocale e apologetica. C’è un disagio che è necessario tradurre per noialtri, il bisogno di chiarire un malinteso sapendo che non verrà chiarito, ma ci si prova lo stesso. Sahar Mustafah parla dell’Islam così come lo vive la protagonista del romanzo, Afaf, dopo che la crisi personale del padre l’ha portato ad avvicinarsi alla religione. Ignoravo quale sarebbe stata l’ambientazione, gli USA degli anni ‘80 fino quasi al nostro presente, che avrei letto dell’impatto dell’11 settembre sulla vita degli emigrati mediorientali e nordafricani, identificati da quello che non so definire se non come “l’esercito non ufficiale degli emeriti stronzi” col terrorismo.

 


La trama si riassume in poche righe: il romanzo è scritto in terza persona, la voce narrante alterna brevi capitoli nel presente alla narrazione più corposa della vita di Afaf, dall’infanzia all’adolescenza, e poi nell’età adulta. Iniziamo con Afaf alle prese col suo ruolo di preside in un istituto femminile islamico, poi leggiamo di quando era piccola, della sua famiglia un po’ storta, il matrimonio dei genitori che traballa, Afaf che si muove in casa come in punta di piedi, impegnata a distrarre il fratellino perché non rompa le scatole. La madre è sempre tesa, costretta a vivere in un piccolo appartamentino a Chicago quando non vorrebbe altro che tornarsene in Palestina. Si delineano presto due tragedie, nel passato e nel presente: la scomparsa di Nada, la sorella maggiore di Afaf, e l’irruzione nella scuola di un suprematista bianco armato.

Mentre scrivo e cancello, scrivo e cancello, mi accorgo che avrei dovuto scrivere questa recensione prima, a romanzo appena finito, oppure tra qualche giorno, per lasciare maturare elucubrazioni che sono ancora vaghe, ma il prestito in biblioteca è già scaduto e tocca restituirlo. Quindi, vediamo.

Ci sono due tematiche molto importanti: la prima è il costante contrasto vissuto da Afaf, generazionale in relazione ai genitori, culturale a contatto col mondo fuori dalla sua casa. Si sente americana, per lei la Palestina è poco più che un racconto, ma a scuola è la bambina, e poi la ragazzina, musulmana, e i suoi compagni la vedono dall’altro lato di una linea di demarcazione che lei avverte come impropria, estranea. Buona parte della sua gioventù è vissuta in preda a una sorta di crisi identitaria che la fa sentire fuori posto in qualunque contesto, che sia quello dei coetanei musulmani, il cui rapporto più stretto, “risolto”, con la fede le fa sentire distanti, e con quello dei bianchi, che rifiutano aprioristicamente di conoscerla per quella che è, dando per scontata un’invalicabile estraneità culturale. Col passare del tempo, il suo rapporto col mondo cambia – e ci mancherebbe altro. Cambiano i genitori, e la relazione che ha con loro si aggiusta attorno a nuovi paradigmi; il suo rapporto con l’Islam, e col fratello minore; l’idea che ha di sé muta, si assesta, si rafforza col tempo.

 


Un pensiero che ha accompagnato buona parte della lettura è: quanto ci vorrà perché elementi della cultura genericamente definibile come araba vengano impastati nel nostro calderone culturale? Perché iniziamo a usare alternativamente daje e yalla, perché il nostro vestiario si innesti di colori, accostamenti, forme altre? E beninteso, senza che si tratti di quell’indiscriminato furto di idee che si chiama appropriazione culturale, parlo di un processo naturale, di ispirazioni sensoriali, di abitudine all’ascolto di un’altra parlata, di adeguamento a un gusto diverso, di quello che succede quando si viene a contatto con qualcosa che è altro, e di conseguenza (tendenzialmente) interessante. Me lo sono chiesto perché mio fratello mi ha mandato una foto del suo pane fatto in casa, e visto che La tua bellezza riporta spesso terminologie arabe, mi è venuto d’istinto dirgli Inshallah, per dirgli che speravo venisse bene. Ed è una cosa minuscola, ma mi sono fatta domande più grandi, cioè quand'è che l'Occidente smetterà di sentirsi minacciato da OMMIODDIO UN'ALTRA CULTURA CORRIAMO AI RIPARI DOBBIAMO DIFENDERE LA POLENTA, quand'è che potremo finalmente- Ok, sto trasformando la recensione in un pippone lapalissiano-moralista di quelli che mi fanno sentire la ragazza che sale sul palco alla fine di Mean Girls, quindi direi che la pianto.

Chiudo accennando brevemente alle piccole cose che mi hanno fatto storcere il naso: come vengono affrontate un paio di chiusure, risoluzioni che mi sono sembrate troppo facili. In un paio di punti di crisi, ho avuto la sensazione che la scena si facesse più vaga, affrontata in modo meno personale, come se la questione fosse più collettiva che privata, come se i pesonaggi che vi prendevano parte si fossero fatti d'un tratto meno loro stessi e più "come ci si comporta/cosa si dice in una data situazione". Non voglio dirne troppo, soprattutto perché è una considerazione mia e non un dato oggettivo. È uno di quei casi in cui sento tutta l’impronta del mio zampino, che è diverso da tutti gli altri zampini.

In ogni caso, è un romanzo che mi sento di consigliare parecchio, non tanto per le tematiche, ma per come mi ha trascinata via in un periodo di OMMIODDIO fatto di scadenze ravvicinate e incertezze amletiche. Ne avevo bisogno.