Oblomov di Ivan Gončarov

Oblomov di Ivan Gončarov (1812-1891), tradotto da Ettore Lo Gatto per Einaudi, e da me pescato in biblioteca con un certo entusiasmo, senza che mi venisse da leggerne la trama, perché mi era capitato davanti chissà quante volte, e chissà quante volte l’avevo lasciato stare, posticipandolo più che ignorandolo, e in un certo senso lo sentivo già familiare.

Come credevo che fosse: Oblomov è un nome strano, abbastanza da vantare un vago sapore esoterico. Non leggo molta letteratura russa – scusami, Fedor, non ci siamo ancora trovati – e finisco sempre per collegare gli autori russofoni a Michail Bulgakov, al suo Il maestro e Margherita, dunque a una sorta di demonologia disperata, critica, paradossale. Mi credevo che Oblomov fosse il nome di un demone, di un diavolo che avesse messo gli occhi sulla sorte di un disgraziato.

Come è effettivamente: ovviamente, e credo possa dirlo chiunque abbia un minimo di infarinatura rispetto alla letteratura russa, mi sbagliavo di grosso. Ci ha pensato la prefazione di Manganelli a farmi presente che Gončarov era un fiero realista, e che di esoterico non avrei trovato nulla. La cosa mi ha un po’ smontata, ma non al punto di non dare seguito alla lettura, e meno male, perché si tratta comunque di un discreto mattone, e in questo periodo ho così poco tempo da dedicare alla lettura di piacere che finisco per scartare romanzi sopra una certa soglia di pagine – chi ha tempo per i mattoni?, accidenti.

 


Oblomov però mi ha presa subito: galeotta è stata la prosa – e tecnicamente pure chi la scrisse, tanto per concludere la citazione – e pagina dopo pagina mi sono affezionata prima a Il’jà Oblomov, il protagonista, poi al suo sudicio servitore Zachar, e in qualche misura al migliore amico Stolz, nonostante le nostre divergenze sulla visione della vita. Perché, premetto, io sto con Oblomov quando dice che “La vita è poesia, gli uomini hanno un bel contraffarla!”, mentre Stolz è tutto un “FATTURAREEE” che manco Beppe Sala in zona rossa.

Mi è stato detto da più parti di prepararmi ad affondare nella mollezza di Oblomov, che dalle prime pagine alle ultime sarebbe successo poco e nulla, cambiato ancora meno. E su questo sono in totale disaccordo: succedono un sacco di cose, soprattutto dentro Oblomov, ma anche al di fuori, è un continuo sentirsi assalire dal mondo e cercare di fuggirvi, raccogliere coraggio, tentare, fare fronte a nuovi ostacoli – che magari ci si è pure dovuti creare – e così via. Gli occhi di Oblomov, poi, sono quelli di qualcuno che non ha mai vissuto pienamente, non è mai stato preda di passioni che non potesse esorcizzare lanciando due urla arrabbiate a Zachar, quindi tutto ciò che lo vede protagonista è fresco, emotivamente soverchiante, enorme. Ma che ne sanno le persone sane, mi è venuto da pensare, chi non soffre di Oblomovismo perché coi suoi occhi vede il mondo esattamente come gli viene raccontato, e non è preda di dubbi né su quello né su se stess*, gli basta muoversi per apprezzare un cambiamento, mentre Oblomov-, ecco, Oblomov è un’altra storia.

Ed è vero che è una storia che, senza gli ostacoli che ci mette lo stesso Oblomov, si potrebbe raccontare tutta in poche righe. C’era una volta il possidente di Oblomovka, ultimo rampollo di una famiglia di possidenti scaduti poco a poco in una dignitosa ma ancora sostenibile rovina. Sta a Pietroburgo, in città, in un appartamento sporco che divide soltanto col suo servo fedele, Zachar, goffo, bizzoso e risolutamente antiquato. Oblomov ha poco più di trent’anni, e non esce mai di casa, se può evitarlo. Gli piace dormire, riposare, lasciarsi andare al pensiero di come vorrebbe restaurare la tenuta di Oblomovka senza mettere in atto nulla. Gli arrivano due lettere, che gli risultano ugualmente spaventose: il padrone di casa intende sfrattarlo – e Oblomov non riesce a immaginare nulla di più doloroso e traumatizzante di un trasloco – e l’amministratore di Oblomovka gli manderà duemila copeche in meno, per via del cattivo raccolto e della fuga di alcuni contadini.

Si avvicendano per le stanze di Oblomov diversi figuri più o meno loschi, alcuni a chiedergli cortesemente di unirsi a loro per pranzo, altri per imporre la loro presenza e spillargli denaro. Capita anche Stolz, l’amico di una vita, contrario a lui in (quasi) tutto – e dico “quasi” perché sono opposti nel carattere, ma si possono definire allo stesso grado brave persone, solo estremamente diverse – sempre in moto, incapace di ritagliarsi un momento libero, perché per lui la libertà si esprime nel lavoro, nell’eterno miglioramento di sé. Non c’è nulla di contemplativo in Stolz: è il tipo di persona che legge per imparare, e non per diletto – e di per sé non c’è nulla di male. Mi pento un po’ di averlo accostato a Sala: Stolz è fatto come è fatto, e non fa danno a nessuno.

Cosa succede, da qui in poi? Oblomov viene scosso a forza dalla sua routine. Per volere di Stolz inizia a frequentare la società. Non lo sa, ma l’amico l’ha affidato alle attenzioni della giovane Ol’ga Ilyinskaya, incapace di prevedere che la stessa Ol’ga sarebbe rimasta colpita, perfino stregata, da Oblomov. E così la trama va avanti, senza forzature, con le sole stagnazioni che sono dovute, considerata la natura del protagonista. Le cose cambiano, si muovono, chi le ferma? La vita succede.

Non dirò altro sulla sorte di Oblomov, su quella di Zachar, Ol’ga e Stolz, ma ci tengo a dire ancora due parole sul personaggio. C’è qualcosa di estremamente puro, perfino tenero, in Oblomov, caricaturale nelle prime pagine, commovente da quando inizia a farsi strada in lui un’altra vita. Capiamo il suo fascino come l’ha compreso Stolz, che ha difatti aiutato Ol’ga a comprenderlo a sua volta. C’è qualcosa di antico nel suo atteggiamento, di tristemente perduto. Potrebbe essere saggio, pieno di buon senso, se non fosse estremizzato e piagato dalla paura di non riuscire a influire nel mondo. D’altro canto, Oblomov ha ragione su se stesso. Questo bisogna concederglielo.

È un libro che resta.

E grazie tante, è un classico.