Non muoiono le api di Natalia Guerrieri

Non muoiono le api di Natalia Guerrieri è uno dei libri che mi sono regalata per il mio compleanno. Non ne sapevo poi granché: sapevo che se ne parlava bene, che era finito nella classifica dell’Indiscreto, che era diventato un piccolo caso letterario. Sapevo che si trattava in qualche misura di una distopia ambientale, e che la cover mi piaceva da matti. Niente di più.

 


Da dove iniziare a parlarne? Dalla dimensione multifocale, dalla brevità dei capitoli, dagli aspetti che mi hanno colpita di più? Facciamo che parto dall’ambientazione, così almeno riesco a recuperare un filo logico. Non muoiono le api prende il via in un contesto non molto lontano, una cinquantina di anni nel futuro, in un paese che non viene mai nominato, che forse non esiste ancora. Si intuisce una maggiore distanza della cittadinanza nei confronti dei comparti statali, una percezione della propria nazionalità che pare più lasca, alleggerita, poco importante. È un’impressione che rientra nello svolgimento graduale della trama, e si riflette dall’inizio alla fine in una sorta di evanescenza, di questione non trattata fino in fondo, non per svista ma per precisa scelta autoriale: i personaggi non si sentono cittadini, non hanno un rapporto esplicito e storico con lo Stato che vada ripensato al cambiare tumultuoso della situazione. Non si può guarire qualcosa che non c’era.

In questo mondo a due passi da noi, la quotidianità delle persone è scandita da Nuvola, un’internet cloud globale che è macrorganismo e fornisce tutto ciò di cui c’è bisogno: le lezioni scolastiche, il lavoro in remoto che è ormai la prassi, l’intrattenimento, l’arrivo della spesa consegnata a domicilio dai rider. Chi può, evita di uscire. C’è stata un’epidemia che forse è ancora la nostra, e si mantiene una certa distanza di sicurezza, e quando ci si incontra con persone estranee al proprio nucleo famigliare si tiene addosso la mascherina. Diversa è la vita degli acomunitari, privi di cittadinanza e bonus salute – dunque privi di copertura sanitaria – usati come manovalanza a basso costo. Si riuniscono in cittadelle, ghetti periferici auto-protetti e auto-gestiti, in cui Nuvola è meno pervasiva.

Ci sono più protagonisti, alcuni molto distanti tra loro: c’è Andrea, una bambina di cinque anni, che vive con i genitori e con la nonna in una bella casa nel centro della città di M; c’è Leonard, un ragazzo che soffre la sua condizione di figlio del papà ministro dell’interno, soprattutto quando si rapporta a Kaleb, il suo ragazzo acomunitario. I capitoli si alternano tra le voci narranti di Andrea, della madre Anna e di Leonard. L’effetto è dinamico, svelto, trainante.

Capita che un giorno su Nuvola iniziano ad apparire video di una violenza inaudita: persone uccise, torturate, decapitate. I phone non si spengono, anche i bambini si ritrovano davanti quelle immagini in pieno orario scolastico. Nuvola viene chiusa, il paese va offline. Da questo momento in avanti, la situazione precipita con inimmaginabile orrore. Si ripropone, sulla pagina, il peggio della storia. Ma è un male senza volto, senza ideologia. È un male senza odio.

Credo che sia stato questo l’aspetto che ho trovato più affascinante del romanzo. Non ci sono razionalizzazioni estreme, una bussola politica, una contestualizzazione di ciò che è il male e ciò che è il bene, una ragione dietro l’orrore che si possa comprendere attraverso il filtro di una follia sociale o partitica. Ed è un aspetto che non mi è dato di elaborare oltre, perché per me si trattava di una risposta scontata e realistica fin dall’inizio, ma d’altronde non tutti applicano il mio stesso filtro interpretativo alla realtà – anche perché altrimenti, signora mia.

Infatti c’è nel romanzo un elemento che non mi torna: una sorta di ingenuità di fondo rispetto a quanto accade, così pervasiva che impedisce a chi vive il presente di darsene una spiegazione pure raffazzonata ma plausibile. Non è l’enormità di quanto accade a risuonarmi storta, perché la realtà si è già spinta abbastanza in là da rendere credibile un orrore sproporzionato – e non parlo dell’Olocausto, che ce lo siamo raccontati come l’eccezione che ha mondato, se non il mondo, almeno l’Occidente dalle nefandezze della storia, ma di quel modello macro-economico che ne è seguito, e di cui forse non realizzeremo pienamente le ripercussioni finché non sarà crollato – per non parlare degli esperimenti della CIA che sono una roba così assurda che manco un editore di fantascienza ci crederebbe.

 


Quello che mi stupisce nei personaggi di Non muoiono le api è la loro cecità rispetto alla complessità del momento storico che stanno vivendo, e soprattutto rispetto agli attori in gioco e alle loro motivazioni. Quanto si possono plasmare i comportamenti e i processi logici di una popolazione, nel giro di pochi decenni?

A pensarci bene, ho taciuto una parte importante, che è quella delle luci. Non muoiono le api non è letteratura di genere soltanto in quanto distopia, ma anche per la presenza discreta di un elemento fantastico, che sfiora appena la trama, anche se la muove di un passo consistente. Ci sono delle luci, e nelle luci ci sono i morti. È un elemento nostalgico, più che magico, che rimanda a una concezione dell’esistente che non si limita a quello che si capisce, o ci si spiega: è, e basta.

Chiudo accennando ai personaggi – quanto sto parlando di questo libro? Ma chi ci arriva a fine recensione? – che raccontano in prima persona, concentrati sul loro presente. Il registro è personale, ognuna delle voci è perfettamente riconoscibile, e non solo perché Andrea, essendo una bambina, usa una parlata infantile e sgrammaticata. Le diverse linee narrative hanno un’atmosfera diversa. Un altro elemento – stavo per dimenticarmene – che ho trovato interessante è il contrasto nel modo in cui Andrea e la nonna si rapportano al mondo esterno, in un piccolo compendio generazionale. Nessuna delle due ha sempre ragione, e questo non è scontato, perché stanno agli antipodi, ma sarebbe stato facile renderne una di una ragionevolezza preponderante rispetto all’altra, dire al lettore che c’è una parte giusta e una che deve seguirla. Invece Andrea e Rosa – il nome della nonna – sono due esseri umani, e tra loro la ragione è un equilibrio.

Non ho mai imparato come si chiude una recensione. Quindi, un po' perché devo uscire e un po' perché non ho idee, lo farò con una foto di Kiki che guarda il romanzo:

 

Prego. Lo so, è bellissima.