Nessun nome per Emilio di Fabio Moràbito - La morte vicina

 Invidio molto il modo in cui la società messicana celebra la morte. C’è il Dìa de los Muertos, che tutti conosciamo – fun fact: su reddit molti messicani si sono detti parecchio soddisfatti di come la festività sia stata riprodotta in Coco, il film Disney, nonostante le voci che dall’Europa agli USA lamentavano una rappresentazione folkloristica irrispettosa – ma non c’è solo quello: il legame coi morti è forte, viscerale, si infiltra a fondo nella letteratura. Non la definirei una fascinazione, perché la fascinazione dà l’idea di qualcosa che è sia morboso che superficiale, e invece a me sembra una vicinanza quotidiana e terrena, la presa d’atto di un mistero vicinissimo.

Informazione di servizio: da qui in poi partono considerazione banalissime di carattere storico-politico. Potete agilmente saltarle fino alla comparsa della prossima scritta verde. Prego.

Non è una prospettiva che limiterei al Messico, beninteso. L’America Latina è ed è stata un luogo in cui è più facile morire che altrove, per mano del tuo stesso governo e malissimo, senza speranza di giustizia. È dall’800 che gli Stati Uniti sostengono dittature militari ad ogni alito di socialismo in America Latina, una tendenza che si è parecchio esacerbata dopo il secondo dopoguerra, quando si è ritenuto di dover esportare il neo-liberismo economico, in barba al voto delle popolazioni locali, che sarebbero anche sature della svendita delle risorse naturali offerte dal territorio. In Argentina c’è stato Videla – e quindi Valeria Luiselli, Manuel Puig, Haroldo Conti, Roberto Arlt, Julio Cortazar. In Cile c’è stato Pinochet – e quindi Roberto Bolano e Nona Fernandez. In Brasile la dittatura militare si è conclusa a metà degli anni ‘80, il Perù ha avuto Fujimori, la Bolivia ha superato un tentativo di golpe giusto nel 2019. Che dire? L’implosione della CIA non arriverà mai troppo presto*.

Torniamo ai libri. Penso a Mariana Enriquez, al suo Quando parlavamo coi morti, al suo Qualcuno cammina sulla tua tomba, entrambi pubblicati dalla compiantissima Caravan edizioni, a Valeria Luiselli che in Carte false passeggia per i cimiteri. A come la letteratura sembri riuscire a sfiorare la morte, che è proprio oltre il velo delle parole, puoi toccarla, raccontare com’è che è parte di te, discuterci, cambiare la tua concezione dell’aldilà.



E arrivo, finalmente, a Nessun nome per Emilio di Fabio Moràbito, edito da Exòrma edizioni nella traduzione di Adriàn N. Bravi e Marino Magliani – e grazie mille alla casa editrice che me l’ha ‘sì carinamente inviato. L’autore è nato in Egitto e ha passato i primi quattordici anni a Milano, prima di stabilirsi a Città del Messico. La quarta di copertina mi dice che ha sempre scritto in spagnolo, e intuisco che l’assimilazione completa della lingua si sia accompagnata a quella della cultura. Ho iniziato parlando di morti e di cimiteri, e forse finora non si è ben capito perché. Il fatto è che l’ambientazione principale del romanzo – che è un libriccino breve, sotto le 200 pagine, che si legge agilmente in una giornata – è un cimitero. Un cimitero che si trova vicino a casa di Emilio, un ragazzino di dodici anni che passeggia in mezzo alle lapidi con un bastone che ricerca nell’aria le barzellette e ogni tanto ne sbuffa una fuori, e che soffre – soffre? – di un disturbo della memoria che gli fa ricordare tutti i nomi che legge. Ha deciso di cercare nel cimitero il proprio, perché se non dovesse esserci nessun Emilio, teme che i morti lo uccideranno per rubargli il nome.

Mentre passeggia per il cimitero, Emilio conosce una donna. Ha perso suo figlio, che era una peste e aveva la stessa età del protagonista. Ogni settimana torna per portargli delle margherite. Emilio e la signora legano, in modo strano, morboso, vagamente inquietante, anche se la signora lo ha accompagnato a casa e ha conosciuto sua madre, convincendola a lasciarsi fare un massaggio. A ben vedere, Nessun nome per Emilio è un romanzo che parla tanto di morti quanto di eros, dell’inizio della pubertà, di sensi che si risvegliano confusi e non sanno bene cosa fare, perché la mente è ancora dall’altro lato dell’infanzia. Non so se si tratti di un contrasto – eros e thanatos? – o di una trattazione obbligata, la presenza di un contrappeso necessario.

Emilio non conosce solo la donna che ha perso suo figlio, e neanche lei conosce soltanto Emilio nel cimitero: il cimitero è frequentato dal padre di Emilio, dal custode che non sa leggere né scrivere, dal suo giovane assistente, Adolfo, che cambia le date sulle lastre perché i morti risultino più giovani, e vengano adottati dai frequentatori del cimitero, una volta che i loro parenti sono morti e le loro lapidi dimenticate. Il cimitero è semi-abbandonato, a tratti quasi selvaggio: ci sono angoli che collimano col bosco, una vegetazione che non si tiene a bada, un uomo col machete di cui Emilio è terrorizzato. La presenza della morte lo rende un luogo strano, in cui le persone sono se stesse in modo più trasparente, viscerale, rispetto a quanto non sarebbero fuori – o almeno, questa è l’impressione che ho avuto. Non è neanche detto che sia un effetto voluto dallo stesso autore, ma mi è parso che la bizzarria di alcune riflessioni, di alcuni desideri, venisse spinta dal contesto, e che al di fuori il mondo scorresse più normalmente.



Si tratta, come dicevo, di un romanzo breve, e temo di aver già detto troppo. Chiudo accennando allo stile agile, secco, alle immagini pregne, ai dialoghi profondi ma leggeri, realistici, che riescono a rendere l’orlo del cambiamento, lo strapiombo dall’altra parte. Il cimitero è forse un luogo di passaggio privilegiato? Non è una domanda retorica, me lo sto chiedendo davvero. È un’opera che mi ha lasciato degli interrogativi, e tanta voglia di fare un salto al cimitero monumentale.

*Mi rendo conto che una recensione dovrebbe puntare prima di tutto sull’oggetto letterario, sul prodotto-libro che è fatto di una storia, di uno stile, di un maneggiamento editoriale ben preciso. Ma credo sinceramente – magari sbagliandomi – che la centralità della morte nella letteratura dell'America Latina non sia soltanto frutto del lento sviluppo delle culture locali, ma figlio di una situazione politica e sociale violenta, esacerbata. Si racconta la morte perché la morte è stata una vicina molto prossima molto a lungo, una pena amministrata senza processo, senza spiegazioni, una crudeltà doppia inflitta alle famiglie che spesso non hanno avuto neanche un corpo da piangere. La letteratura è figlia anche di questo. Scusate il pippone.