HUMAN/corpi ibridi, mutanti e fluidi nell'universo del possibile - Una recensione per niente oggettiva

 Sono passati già un paio di mesi dall’uscita di HUMAN/ corpi ibridi, mutanti e fluidi nell’universo del possibile, l’antologia targata Moscabianca a cura di Diletta Crudeli e con la prefazione di Antonia Caruso, in cui compare un mio racconto. Mi ci è voluto un po’, non solo per decidermi a parlarne, ma pure per leggerla: come gli altri autori, ho ricevuto la mia copia con un po’ di anticipo, eppure è rimasta a fissarmi dal comò per settimane senza che riuscissi a trovare il momento giusto – o meglio, non tanto il momento giusto, quanto il mood, l’ispirazione, quel guizzo di voglia e interesse che ti fa mettere da parte tutto il resto perché è proprio quello che vuoi leggere. Non ricordo cosa sia scattato esattamente, forse il tempo, la calma, leggerne qua e là un paio di recensioni che mi hanno portata a vedere il libro come un’entità a se stante e ad approcciarlo con la distanza ideale che sento dovrebbe frapporsi tra opera e lettore – faccio molta fatica, purtroppo, a leggere romanzi scritti da qualcuno che conosco al di fuori della letteratura, perché è come se tra me e il libro ci fosse una presenza di troppo, quella dell’autorə, l’incomodo di una prospettiva conosciuta indipendentemente dalla storia, ma che già me la fa sentire nota.

O forse, banalmente, è il fatto che HUMAN/ veniva raccontato per l’Internet con un certo entusiasmo, e mi andava di prendervi parte a ragion veduta. E ora, gioia e gaudio, posso farlo.


Come sempre, parlare di raccolte di racconti non mi è facile. In questo caso è ancora più difficile del solito, perché non si tratta di una raccolta che contiene il germe di unə stessə autorə, ma mescola insieme i mondi e le soluzioni pensate da autorə diversə attorno al medesimo tema, che è quello del corpo umano come istanza capace di mutare, ibridarsi, trasformando nel contempo il suo rapporto col mondo esterno quanto col proprio mondo interiore, in una prospettiva weird, quindi disturbante, onirica, assurdamente possibile. L’argomento era di per sé vasto, e offriva un ampio grado di autonomia – leggendo gli altri racconti, lo ammetto, ho sentito la mia storia un po’ banale messa lì in mezzo, perché potendo osare, gli altri hanno osato parecchio, mentre io mi sono mantenuta, tutto sommato, nei confini del mondo che conosciamo, pure se con qualche significativa aggiunta. A lettura terminata, ho chiesto a Diletta secondo quale criterio fosse stata strutturata la disposizione dei racconti*. Mi ha confermato, come immaginavo, che si trattava della scelta di un mood, di un flow. Ritmo, atmosfera. Mi piace il fatto che anche nella sua concezione come oggetto editoriale, HUMAN/ sia stato pensato secondo criteri impalpabili, soggettivi, non dimostrabili. Credo che funzioni: Il giardino del diavolo di Alice Bassi – ciao, Ali – che apre l’antologia setta subito l’atmosfera, le premesse, la maneggiabilità del possibile come del linguaggio. Si parla di un futuro che ci saluta lievemente e comprensibilmente distopico, di coscienza oltre l’umano, di come ci ricordiamo e di come ci ricordano i defunti, in uno stile pregno, intenso, altamente significante. HUMAN/ si apre con una bomba, e continua con un’altra bomba che è forse il mio racconto preferito di tutta l’antologia, Sorelle d’acqua di Michela Lazzaroni, in cui ancora siamo nel futuro, ma in un futuro ben più incerto, e cambiato, in cui una sorellanza religiosa scava pozzi in un mondo arido, e la protagonista cerca di nascondere il proprio strano morbo. Ci sono altri racconti bomba, sparsi in mezzo agli altri. Oltre a Sorelle d’acqua, i miei preferiti sono Luce di Valentina Ramacciotti – un racconto settato nel contemporaneo e ancestrale che parla di boschi, di silenzio e affronta il concetto di genesi, di amore di-di-di-di-di tutto, diamine, come si fa a parlarne? – e Venere di nylon di Linda De Santi, in cui la civiltà come la conosciamo è in parte collassata, i ricchi vivono separati dai poveri, e mentre gioca con gli amici in una discarica – ovviamente lato poveri – la protagonista fa la conoscenza di unə androide parecchio malmessə – e non è che finisce lì, ma non mi piace dire troppo dei racconti, accenno giusto al fatto che curiosamente non rimaniamo nello stesso contesto, perché la protagonista ha una sua umanissima capacità d’azione sul proprio presente, e quindi-

Il fatto però è che, anche uscendo dai racconti che si contendono il primo posto nella mia classifica personale, non ce n’è stato uno che abbia trovato meh, privo di nerbo, poco interessante. Avevano tutti dentro quel qualcosa che è insieme un motivo per scrivere una storia e un motivo per leggerla. Una roba impalpabile, potrei dire essenza, o guizzo, o un sacco di altre parole che non colgono precisamente il grumo di senso che ho in mente, ma in qualche modo credo di essermi spiegata. È un’antologia di cui davvero sono orgogliosa di fare parte, perché ogni racconto, essendo piazzato nello stesso mucchio del mio, è stato una piccola cotonata all’ego – espressione presa pari pari dalla signora Cesira di Lupo Alberto.

 


MA BASTA PARLARE DI ME (come no), cerco di tornare ai racconti. La mutazione è il punto focale, la chiave di lettura. Una mutazione che ho interpretato insieme ad altri come una questione di genere, in una prospettiva queer che non è preponderante nell'antologia, perché queer è un’etichetta che separa l’eccezione dalla norma, e in un mondo altro, che sia passato o futuro, la norma non sarà la stessa che è oggi. Ma la mutazione non è solo queer: è anche una questione più profonda, che si determina nel momento in cui un personaggio decide che può o vuole essere altro: non più umano, non più solo, non più reietto. In Meditazione obbligatoria, Carlo Benedetti racconta una comunità lontana nel tempo, che descriverei come una setta felice – posto che ogni società, basandosi per forza di cose su una serie di assiomi dati per scontati, è un po’ setta – e di come il protagonista l’abbia vissuta, e di come sia cambiato allontanandosene. In Simbiosi di Maurizio Ferrero, l’ambientazione forse più estrema, distopica in modo impossibile, e crudelmente avanzata. Come in Luce, si parla di genesi e di legami, ma partendo da una prospettiva darwiniana, come si intuisce dal titolo. In Paura di nuotare di Simone Giraudi, così come in Aquarium di Lucia Perrucci, in Il Re Demone del Sesto Cielo di Andrea Cassini e in Venere di nylon, è la concezione stessa di corpo ad essere sviscerata, come peso, come insieme di funzioni e bisogni, come involucro che separa l’individuo da ciò che esterno all’epidermide.

Ma poi è sbagliato, forse, andare a piluccare al centro del racconto per cercare di cogliere come sia stata rielaborata la tematica di fondo, quando quello che conta in un’opera narrativa, per breve che sia, è lo sbrogliarsi della storia, e se riesce a legare a sé il lettore; il guizzo originale, va bene, tutto bello, ma quello che conta – per me – è prima di tutto il sollazzo, che può essere anche intellettuale, ma dev’essere incastonato in un gioco, un facciamo che che se non riesce ad agganciare il lettore, crolla tutto, e poco importa se l’impianto iniziale era un’ottima idea. Quello che conta è la voglia di voltare pagina, e quella non mi ha mai lasciata. 

 


*Ovviamente ho fatto caso alla disposizione dei racconti anche perché il mio è circa a metà, e mi premeva sapere se ci fosse di mezzo un giudizio anche qualitativo perché SONO UN ESSERE UMANO E DUNQUE FALLIBILE, EGOMANIACA E SEMPRE IN CERCA DI CONFERME E-la smetto.