Ira Levin - L'orrore dal Satanismo all'adorazione del Fuhrer

 Fino a poco tempo fa – a lettura bella che iniziata di Rosemary’s Baby – ero convinta che Ira Levin fosse una donna. E voglio dire, il nome un po’ lo suggerisce alle mie orecchie italiane, ma il fulcro del malinteso era, prima di tutto, la visione di La donna perfetta, film del 2004 tratto dal suo romanzo del 1972 La fabbrica delle mogli. La critica femminista era così evidente e ben dosata, resa con coerenza e ironia amara, che mi sono convinta che Ira dovesse essere una donna, e me la immaginavo come la scrittrice interpretata da Bette Midler nel film di Frank Oz.

E invece Ira è un uomo, e molto probabilmente un femminista. Ha scritto Rosemary’s Baby, ha scritto La fabbrica delle mogli. I ragazzi venuti dal Brasile è un titolo al maschile, in un certo senso, perché ci sono pochissimi personaggi femminili e pochi hanno un vero risalto, ma il protagonista è un ebreo anziano che caccia i nazisti negli anni ‘70, e che il suo ambiente sia accademico che venatorio sia poco aperto alle donne è tutto sommato comprensibile – inoltre il romanzo in sé è un colpo di genio, quindi.

È raro che io legga due libri di uno stesso autore in momenti tanto ravvicinati. Di solito lascio qualche mese – ma pure qualche anno – di respiro tra un titolo e l’altro, cerco di non bruciarmi subito una bibliografia. Stavolta, vuoi per Halloween, vuoi per quanto mi era piaciuto Rosemary’s Baby, dall’uno mi sono fiondata all’altro con un paio di settimane scarse in mezzo. E giustamente, ora ne chiacchiero tutto insieme.

 


Rosemary’s Baby (edito in Italia da Sur nella traduzione di Attilio Verardi) sembra in tutto e per tutto un horror classico, anzi, classicissimo. Abbiamo una coppia giovane e promettente che si trasferisce in un palazzone vittoriano, nonostante un caro amico di lei li metta ripetutamente in guardia per via delle disgrazie che si sono succedute per decenni tra quelle mura. Ma loro adorano la proprietà, i suoi dettagli, gli infissi e quant’altro, e si trasferiscono comunque. Certo che c’è qualcosa che non va, e quel qualcosa serpeggia nella consapevolezza del lettore ben prima che la protagonista se ne renda conto. I vicini sono troppo cortesi, sospettosamente amichevoli e soffocanti. Attorno alla coppia spuntano nuove occasioni, corredate da tragedie. C’è qualcosa che rotea attorno a Rosemary, teso a guidarla verso- che?

Quello che ho adorato di Rosemary’s Baby non è tanto lo svolgimento – benché sia comunque un ottimo romanzo horror, con personaggi profondamente umani con cui è facile entrare in contatto e immedesimarsi – quanto il finale. Il finale, soprattutto se teniamo conto dell’anno in cui è stato scritto il romanzo – nel 1967, prima ancora che l’uomo calpestasse la Luna, negli stessi anni in cui ancora si censurava L'amante di Lady Chatterley – è di un’attualità, di una &/$%&$%$ (censuro per evitare spoiler) incredibili. È inatteso. I dialoghi sono fantastici. Prende la concezione della storia e la ribalta come un calzino. Il banco ha deciso che il mazzo di carte con cui stavamo giocando non va bene e ne va a prendere un altro.

L’effetto più o meno è quello. Ed è efficacissimo.


 
 
 
E I ragazzi venuti da Brasile, quello è un’altra storia ancora. Voglio dire, devo ancora leggere La fabbrica delle mogli e una mezza manciata di libri di Ira, la sua bibliografia l’ho appena sfiorata, ma mi viene già da considerarlo il suo capolavoro, la sua opera eccellente, il suo trofeo e il suo orgoglio. Sarà che è fluido e leggero e si legge in un giorno, non perché sia breve, ma perché non si riesce a metterlo giù. Sarà che la prospettiva è multifocale sia sul protagonista che sull’antagonista, e la situazione è inizialmente così complessa e ingarbugliata che riuscire a renderla in modo chiaro è un piccolo miracolo. Sarà che è fantapolitica da rasentare l’ucronia, e a me questo piace molto. Sarà anche, infine, che provo una sorta di triste soddisfazione quando i ruoli si ribaltano, la guerra finisce e gli ebrei da prede si fanno cacciatori, che è proprio quello che fa il protagonista del romanzo, Yakov Liebermann: siamo negli anni ‘70 e cerca i nazisti fuggiti nell’America Latina, in cerca di una pace personale e di una giustizia estesa.

Inizia così: un gruppo di nazisti si ritrova in Brasile per accordarsi su un piano. Qualcuno li sente, mette in allerta Yakov, ma non riesce a dirgli abbastanza. Yakov deve fare qualcosa, con quel poco che ha in mano. Queste sono le prime pagine, un incipit, un assaggio. Ma fino a oltre metà del libro non si ha idea di quale possa essere il piano. Ci sono andata vicino? No. Forse, appena appena, se non avessi escluso un elemento importantissimo: che il buon Ira non lesina in indizi, anzi. Solo che la sua fantasia è parecchio contorta, è difficile trovare l’incastro.

Quello che faccio, ora, è consigliare Ira Levin con tutto il mio essere. E di slancio, collateralmente, affermo che chi ha gradito I ragazzi venuti dal Brasile, probabilmente adorerà Quando le chitarre facevano l’amore di Lorenzo Mazzoni, una meraviglia che dire non so – se non elencando, in ordine sparso, comuni-rock’n’roll-tacchi-sicari-droga-follia.

E poi tornare a buttarmi su quello che sto leggendo – finalmente ho ripreso in mano HUMAN/, sono al terzo racconto, e proseguo bene nonostante il timore di ritrovarmi di fronte a racconti che sono millanta volte meglio del mio: SPOILER, FINORA LO SONO ECCOME – e un romanzo di Brianna Carafa recuperato in biblioteca.

Autostima, dove se? Un giorno ti troverò e faremo faville.