Piccoli scorci di libri #67 - Il caravan di Jennifer Pashley e Paradox di Massimo Spiga

Il caravan di Jennifer Pashley – traduzione di Anna Mioni, Carbonio Editore

 

      Non so neanche dire da quanto tempo non mi capitasse di prendere in mano un thriller. Forse neanche l’avrei letto, se avessi saputo che era un thriller. Ma sono passata in biblioteca e l’ho trovato lì ad aspettarmi, e mi sono ricordata di quando mi era stato consigliato sull’oroscopo di Paper Moon. L’ho preso senza pensarci, ignorando la quarta di copertina. Ho capito in che territorio ci stavamo muovendo ben dopo il primo cadavere – perché al primo potevo ancora chiedermi se fosse un dramma, se la morte si sporcasse di realismo magico e quant’altro. E invece c’è la morte quella seria, quella irrevocabile e priva di lezioni, quella del thriller.

Qui abbiamo due voci narranti ad alternarsi. Rayelle e Khaki. Due cugine che non si vedono da anni, da quando Khaki è montata sulla macchina del suo ragazzo quando aveva solo sedici anni e se ne è andata per sempre dal trailer park in cui abitava, la roulotte vicina a quella di Rayelle. Le loro esperienze, da lontano, sembrerebbero simili: pochi soldi, un contesto di degrado, un sacco di alcol in casa. Ma Rayelle non ha una vita così malandata: certo, sua madre è alcolizzata e anaffettiva, ma il suo patrigno Chuck è un brav’uomo, le è sinceramente affezionato, la porta a girare gli Stati Uniti in macchina e a mettere da parte bei ricordi. Khaki non ha un buon patrigno. Ha un padre orribile, una madre disfatta – e poi morta – e un fratello a cui è esplosa la faccia – morto. Il suo legame con la morte è ineludibile.

All’inizio del romanzo, Rayelle è completamente persa. Sua figlia è morta, e lei continua a sentirsi responsabile, schiacciata da quello che avrebbe potuto fare per evitarlo. Incontra un tipo più interessante del solito in un locale, e da lì le cose – per lei – si muovono.

Khaki all’inizio non c’è, è appena un accenno. Arriva dopo un po’, quando già si pensa che la focalizzazione resterà su Rayelle per tutto il romanzo. Khaki arriva con tutto quello che si porta dentro. E di più non posso dire.

Quello che ho adorato di Il caravan è il modo in cui nessun personaggio si limita a un ruolo predefinito, nessuno si adatta al suo preciso copione. Non ci sono buoni e cattivi, solo personaggi profondamente imperfetti, e quasi tutti hanno un lato discutibile. Cambia solo il lato del prisma su cui si concentrano i capitoli, ma è questione di prospettiva, non di natura. C’è stato un periodo in cui non leggevo altro che noir e thriller – ho dovuto smettere perché davvero, non dormivo – e mi ha fatto pensare a Ellroy, a Leonard, a DBC Pierre. Quel senso di orrore sotterraneo, perché il mondo dopotutto è davvero un posto crudele e inospitale. Eppure c’è quel barlume. Eppure.

 

Paradox di Massimo Spiga – Acheron Books

 

Questo è un romanzo che ho iniziato più volte. Se dovessi rispondere al perché, onestamente non saprei dire, perché tutte le volte che l’ho preso in mano la mia reazione di lettrice è stata un UOOOH di entusiasmo. Forse non proprio la reazione della me stessa lettrice: forse era la parte “questa realtà non mi convince”, la parte “possibile che diamo per scontato che le cose debbano essere così come sono?”, la parte che si tuffa nell’assurdismo di Camus – senza peraltro avere mai letto Il mito di Sisifo.

Siamo nella Roma contemporanea. Stiamo dietro a Perla, una ragazza che abita un quartierino di quelli che avrebbero potuto abitare Rayelle e Khaki se fossero nate nella città eterna. Ma questo pezzetto di Roma non è visto con gli occhi del disagio, della paura, del degrado. È un pezzettino di Roma che si è come sottratto a un ordine eccellente, per restare a funzionarsene per i suoi metodi. Che non vuole farsi inglobare, masticare, cambiare. Non è perfetto, sa di non esserlo, e non vuole esserlo. Vuole essere lasciato in pace.

Come Perla. Perla che vede un cubo in cielo, con una scena che cambia impercettibilmente di anno in anno. Che fa amicizia con un barbone che ha teorie strane, e a un certo punto sparisce. Che tiene un blog in cui racconta del cubo, che lavora per tenere su una famiglia malandata. Perla che si trova ad assistere all’esplosione del cubo, alla liberazione di D, un bizzarro individuo che assicura di essere antichissimo e parla di Joyce.

Paradox è un romanzo tanto: nel senso che ha più anime, può essere letto secondo più prospettive, a seconda del lettore. Innanzitutto, per me, è stato un romanzo sulla realtà, sulla sua lettura, sul ruolo degli individui e delle storie nel tempo e nell’universo. Sulla responsabilità, sulla causalità. Su tutto ciò che potrebbe essere. Secondariamente, è anche un romanzo pieno di azione, dialoghi scattanti, violenza, rielaborazione di elementi narrativi, fusione tra i generi. È un sacco di cose. E sono – quasi – tutte gestite benissimo.

Ho poche riserve rispetto a Paradox: a volte i dialoghi fanno un po’ troppo film d’azione e risultano un pelo forzati, considerati i legami ancora acerbi tra i personaggi, e l’inquadramento di certe faccende non è sempre al livello “ottimale” di “misticismo”. Non posso elaborare più di così senza rischiare di rovinare un po’ la lettura.

Ma funziona? Eccome. Un paio di perfetti colpi di scena, caterve di dialoghi intensi su questioni profonde e importanti, una prospettiva sulla storia e sulla realtà e su quello che possiamo farci che mi ha fatto venire voglia di abbracciare l’autore.

Voglio bene a Perla, che abita il mio mondo. Voglio bene a D, che cerca di salvarlo.