Di Giovanni Arpino finora non ho letto che pochi titoli, nonostante me ne sia riempita gli scaffali per pochi spicci perché lo trovo sempre nelle librerie dell’usato. Mi dà l’idea di essere stato, per un certo periodo, uno degli autori italiani di maggiore spicco, quelli che te li nominano e annuisci che pure se non hai letto niente sai di chi si sta parlando. Un Calvino che non è diventato Calvino, ma che da qualche tempo sta tornando a reclamare l’attenzione di nuovi lettori – perché Domingo il favoloso l’ha ripubblicato di recente minimum fax, e un po’ di anni fa Storie di altre storie usciva per Lindau, e questo vuol dire che la stella non si è spenta, si stava solo riposando.
Domingo il favoloso è ambientato a Torino, e Torino è così presente che a leggere mi viene da guardarmi dietro le spalle, per controllare che non ci sia nessun fantasma letterario a controllarmi le pagine. Non è la Torino di sempre, né la Torino di tutti. È quella che chiamo Torino di Sotto, ispirata dalla Londra raccontata da Gaiman in Nessun dove, né falsa né cortese, quella che ti presenta l’impossibile e te lo fa credere, che non ti chiede di ammansirti quando parli della Torino di Sopra, così chiara e limpida e distante. Da un punto di vista meramente occulto, Torino è separata in due, la Torino bianca e la Torino nera – la linea di rottura, a quanto ho capito, dovrebbe essere il Po. Ad Arpino piace raccontare quella strana.
E della trama non dirò altro.
Credo che Domingo il favoloso sia vicino, ma non del tutto assimilabile, al realismo magico, all’impressione di trovarsi in un mondo a metà, che è o non è incantato a seconda degli occhi che lo guardano, dell’interpretazione che il singolo vuole dare all’assurdo – è solo strano o è magia? In questo caso la risposta non è evidente, e il lettore può in un certo senso sceglierla, perché Arpino lascia uno spazio indefinito e interpretabile tra libro e lettore. Un altro aspetto davvero meraviglioso è lo stile, che non ha nulla di banale né di trattenuto, ma è anzi pregno e personale. Mi ha fatto pensare a Michele Mari, alla vitaccia del suo editor come me la immagino – “Scusa Miche’, ma qui non sei proprio adamantino, che mi significa in narrativa questo lessico poliedrico?”, e Miche’ risponderebbe con una stringa incomprensibile che si riassumerebbe in un più immediato “Stocazzo” – e alla standardizzazione della lingua nella letteratura contemporanea.
Per quanto mi riguarda, Domingo è un re già all’inizio dell’opera, perché vede la realtà concreta così com’è fatta e decide che è una sciocchezza e la ricrea a modo suo, stando attento a non seguire neanche regole autoimposte. Domingo è quello che sarei se ne avessi il coraggio, o se non amassi così tanto la realtà che ho.
Voglio muovermi da re. Poco, ma da re, e la prima cosa che fa riconoscere i re è che non hanno fretta. Fanno il tempo, non lo subiscono. Questo spetta all'uomo, se si convince d'essere re.