Il mondo nuovo di Aldous Huxley - Una distopia utopica, o un'utopia distopica

 Il mondo nuovo di Aldous Huxley è un classico su cui mi sono gettata senza saperne granchè, salvo le poche informazioni che ho introiettato passivamente nel corso degli anni senza mai approfondirle – perché è così che mi piace leggere narrativa, senza filtri interpretativi altrui a frapporsi tra me e il testo, in modo che l’esperienza possa dirsi del tutto personale, così come se l’era figurata idealmente l’autore, scevra di contestualizzazioni storiche o filosofiche. Leggendolo, ho capito che il poco che mi era arrivato era impreciso, perfino scorretto. Credevo fosse una distopia, e lo è, in un certo senso, ma è anche un denso lavoro di utopia, almeno nelle intenzioni di chi la distopia la mette in atto – la dimensione distopica è soverchiante, evidente, eppure estremamente diversa dalle versioni crudeli e sanguinarie che ci hanno regalato altri autori – Bradbury con Fahreneit 451 o Orwell con 1984, che non ho ancora letto proprio perché ne so fin troppo. È lo stesso Huxley a fare un parallelo con 1984 all’inizio di Ritorno al mondo nuovo, un commentario che parte dal presente dell’autore – Il mondo nuovo è uscito nel 1932, Ritorno al mondo nuovo nel 1958 – per spiegare cosa metterà in essere, in un futuro non troppo lontano, la sua razionale distopia utopica – o utopia distopica? È difficile da definire chiaramente, semplificare vorrebbe dire sorvolare sull’attento lavoro dell’autore, che rielabora un’antica diatriba, quella tra ragione e sentimento, presentate ai loro estremi in tutto il danno che possono produrre, in un modo che rende difficile discernere quale sia in fondo l’idea dell’autore – inizialmente avevo scritto “da che parte stia l’autore”, ma mi sono corretta subito, perché la parzialità dell’autore non è un elemento importante rispetto alla ricezione di un testo, che è un’entità indipendente e separata e non ha bisogno di ulteriori inquadramenti.

 


Credevo anche che fosse un testo duro, di difficile lettura, ingarbugliato come tendono ad essere le opere che rappresentano un futuro tecnologicamente complesso e dalle strutture sociali innovative – Neuromante di William Gibson, per dire, l’avrò iniziato chissà quante volte, prima di tuffarmici appieno. E invece una volta partita con Huxley non mi sono più fermata, anzi, nonostante gli impegni e il tempo che sembra correre per farmi dispetto, l’avrò finito sì e no in tre giorni – la me stessa di qualche anno fa mi riderebbe in faccia, che si leggeva bel bella un libro al giorno, che bella la vita spensierata da giovinastra, sigh.

Aldous Huxley è nato nel Surrey nel 1894 in una famiglia di scienziati ed è morto a Los Angeles nel 1963. Critico letterario e musicale, prolifico sceneggiatore – che sorpresa scoprire che ha sceneggiato la prima versione cinematografica di Pride and Prejudice, quella del 1940 diretta da Robert Z. Leonard – è famoso soprattutto per Il mondo nuovo, anche se ha scritto molto altro, prima e dopo.

 



Dunque, Il mondo nuovo.

Siamo nel futuro, ma non è chiarissimo quanto siamo nel futuro, perché il calendario è stato azzerato e il punto di inizio è Ford. Henry Ford l’industriale, il magnate, l’inventore della catena di montaggio, l’eroe americano. In questo futuro, tutto è ottimizzato secondo le stesse logiche: a ogni essere umano corrisponde una mansione: nessuno è inutile, nessuno è indispensabile, perché tutti sono sostituibili. Poiché sarebbe disumano richiedere a un essere umano che dedichi la propria esistenza a un compito gravoso, monotono e che egli disprezza, gli esseri umani vengono bioingegnerizzati perché possano provare soddisfazione e piacere nello svolgimento delle mansioni cui saranno destinati. Questo è possibile grazie alla conversione del sistema delle nascite in una catena di montaggio vera e propria: nessuno, nel nuovo mondo, concepisce “alla vecchia maniera”, anzi, nessuno concepisce e basta. Laboratori avanzatissimi si occupano della fecondazione, della gestazione e infine della nascita e della crescita degli individui – che chiamare “individui” è un po’ improprio.

Non c’è scampo dal continuo e tartassante condizionamento: parte fin da prima che ci si possa fare davvero qualcosa, nei laboratori in cui i feti vengono sottoposti a determinate condizioni ambientali perché risultino perfetti o gradatamente carenti. La società è suddivisa in classi sociali cui corrispondono mansioni sempre più ingrate: ci sono gli Alfa, i Beta, i Delta, i Gamma, i disprezzati Epsilon. Non esistono genitori o parenti, tutti appartengono a tutti, si cresce e si studia in istituti controllati dallo Stato, si legge la stampa dedicata alla propria categoria, la droga di stato è distribuita gratuitamente perché gli screzi della vita non possano sedimentare in un vero dolore. Nel mondo nuovo, è bandito tutto ciò che possa scatenare passioni violente: l’arte, l’amore, la letteratura. È un mondo comodo, e un mondo arido – consapevolmente arido.

 


 

Un aspetto particolarmente interessante del romanzo è lo sguardo spietato dell’autore sui suoi personaggi, su tutti i suoi personaggi. Ognuno, a modo suo, è umanamente piccolo e meschino, patetico o arrogante, o disperatamente fatuo. Non ho trovato nell’opera un vero e proprio esempio, fatta eccezione per un personaggio secondario, che fa perlopiù da contrappunto ragionevole senza che al testo importi granchè di chi sia, cosa faccia o cosa voglia.

Difficile parlare della trama: non che sia particolarmente complessa o involuta, anzi, e non è nemmeno statica o noiosa, ma neanche adrenalinica. Il mondo nuovo è un ideale tranquillo, intoccato dalle emozioni violente, al riparo dai colpi di testa delle tragedie. Ogni rimando al sentimentalismo è tacciato, ridicolizzato. L’umanità ha dichiarato guerra alle passioni, e ha vinto.

A suo modo – e dico “a suo modo” perché la visione politica di Huxley era, come ogni visione politica, parziale (compresa la mia) – Il mondo nuovo ha dipinto le aberrazioni di due tendenze opposte, quella autoritaria ispiratagli dal regime stalinista e quella liberista; politica la prima ed economica la seconda, nel romanzo hanno finito con l’incontrarsi e fondersi in una bestia che ricorda il nostro tardo capitalismo – più abile nel condizionamento, razionale solo in apparenza.

So benissimo che c’è bisogno di situazioni assurde e folli come questa; non si può realmente scrivere bene su nessun altro soggetto. Perché questo vecchio [Shakespeare] era un tecnico così portentoso della propaganda? Perché aveva tante cose insensate, crudelmente dolorose, sulle quali poteva sovraeccitarsi. Bisogna essere colpiti, turbati; senza di che non si trovano le espressioni veramente buone, penetranti, le frasi a raggi X”.