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Negli ultimi tempi sto leggendo pochissimo – così poco che, giuro, saranno settimane che non finisco un libro. In compenso, nei mesi scorsi ho letto un bel po’ di meraviglie che non ho avuto tempo di recensire. I romanzi cui accenno qui sotto meriterebbero ognuno un proprio spazio, digressioni storiche sulla vita degli autori e delle autrici. Ma non ho abbastanza tempo per impegnarmi in recensioni degne di essere chiamate tali, quindi risolvo con queste tre distinte dichiarazioni d’amore: sono letture splendide ed è facile parlarne, potrebbe perfino bastare un “accattateveli santoddio, me ne sono innamorata”.
La straniera di Claudia Durastanti (La nave di Teseo, 2019)
Non
è facile capire come parlare di questo romanzo. Prima di tutto, qual
è la tematica? La voce narrante appartiene alla protagonista, una
giovane donna che vive a Londra e racconta il suo passato, il passato
dei genitori, le proprie diaspore, e il senso di separazione che la
allontana dagli
altri.
È nata a Brooklyn, per poi crescere in un paesino in Basilicata. I
genitori sono scapestrati, problematici, al punto che la narrazione
così misurata stona, di tanto in tanto, perché ciò che racconta
non ha nulla di misurato o di ragionevole. “A chi potrebbe mai
venire in mente di…?” ci
si potrebbe chiedere,
e
la risposta è:
“ai suoi genitori”. Entrambi
sordi, vivono con rabbia in un mondo che li taglia fuori, con picchi
di anti-socialità che personalmente ho trovato parecchio più
vividi, realistici e dignitosi, delle
classiche narrazioni consolatorie sulla disabilità – “Sono
migliori di noi, una benedizione signora mia, così sfortunati eppure
sorridono, degli angeli…”. A fronte di questo smarmellamento
mediatico, apprezzo molto quando i personaggi disabili sono trattati
come persone, quindi fallibili, difettosi, in
grado di agire sulle proprie volontà e di ottenere, con le buone o
con le cattive, quello che vogliono.
Il tema non è limitato alla famiglia – problematica – o alla diaspora al contrario; la protagonista parla di amore, di società, del mondo del lavoro e del decantato mito della meritocrazia – che sta finalmente crollando, ci tengo a ringraziare i grandi imprenditori che, facendo platealmente schifo, dimostrano che non fosse per i soldi del papi starebbero implorando per uno stage in un magazzino come noialtri disgraziati – e dunque uno sguardo critico sul capitalismo che non mi aspettavo, e che ho quindi particolarmente gradito – come quando ti arriva il cappuccino con una spolverata di cacao: non l’ho chiesto e non ce n’era bisogno, ma ci sta proprio bene.
Lo stile è azzeccato, pesato, scorrevole. Può non piacere per ragioni strutturali – i capitoli seguono una progressione tematica e non una progressione cronologica lineare – ma non trovo nient’altro che possa costituirsi come elemento potenzialmente spiacevole.
Inoltre è piaciuto alla mia Coinquilina, e questo è un attestato validissimo.
Dio, il Tempo, gli Uomini e gli Angeli di Olga Tokarczuk - traduzione di Raffaella Belletti (edizioni e/o, 1999)
Guidail tuo carro sulle ossa dei morti
mi aveva
stregata. La
prospettiva originale, l’assenza di giustificazioni e di una forzata,
stucchevole ragionevolezza,
l’affermazione che non sente il bisogno di ammorbidirsi. È stata
una lettura importantissima per me, al punto che sto ancora
riflettendo su quanto sia stata importante.
Questo romanzo, scritto un bel po’ di tempo fa – perché 22 anni sono un bel po’ di tempo fa – l’ho pescato in biblioteca, mentre rimiravo il catalogo online. Avevo bisogno di qualcosa che ispirasse il lato più disordinato e improbabile della mia immaginazione, e ho fatto bene a cercare Olga, anche se il titolo, lettomi al telefono dal bibliotecario, suonava un po’ da manuale di auto-aiuto di quelli particolarmente improbabili.
Ho sempre associato il realismo magico alla letteratura sudamericana. A Gabriel Garcia Màrquez, a Haroldo Conti, a Josè Saramago. Nel mondo reale, capita qualcosa di completamente irreale, e tocca venirci a patti. Olga è polacca e il modo in cui intreccia reale e irreale è magnifico; si parte da un paesino delimitato ai suoi quattro angoli da quattro Angeli; si parla di magia e predestinazione; di esseri umani che impazziscono, si perdono, trasmutano; di storia, di guerra, di tempo che passa e porta cambiamenti. Tutto nel suo stile vivo, giocoso. È come se Olga, scrivendo, incantasse le parole, e gli occhi saltellano allegri da una parola all’altra.
Il bacio della donna ragno di Manuel Puig - traduzione di Angelo Morino (Einaudi, 1978/Sur, 2017)
Questo
è un libro che non avrei letto – se non per caso, molto più
avanti – se non me ne fosse capitato davanti un breve stralcio di
cui non ricordo nulla, adocchiato
su twitter. Una
citazione che mi
era rimasta abbastanza impressa da farmi decidere di recuperarlo –
con calma e pazienza, che ho una coda di lettura spaventosa, ma il
fatto stesso che mi fosse rimasto così chiaro in mente è
una riprova di quanto quella citazione fosse
convincente.
Me lo sono regalato per Natale – o per il compleanno? – insieme a un romanzo di Alfred Jarry e a uno di Sylvia Townsend-Warner, e l’ho divorato. Una lettura intensa, che non posso nemmeno chiamare violenta, perché anche lo strazio era addolcito da un sottofondo umano e gentile, originale e scorrevolissima. Non ho ancora letto altro di Manuel Puig, ma lo farò: con Il bacio della donna ragno si è guadagnato la mia imperitura adorazione.
Ci sono due uomini in prigione, a Buenos Aires, negli anni ‘70 – gli anni in cui i miei nonni e le loro figlie, saggiamente, se ne tornavano in Italia. Tra loro si instaura un dialogo continuo, intimo, che parte dal cinema e sprofonda nelle loro vite private. Uno è un dissidente politico, trattenuto perché denunci i suoi compagni. L’altro è un uomo omosessuale accusato di corruzione di minori. Si raccontano vecchi film, si dividono il cibo, stringono tra loro un legame improbabile e commovente.
Non mi va di dirne altro, perché merita davvero di essere scoperto con gli occhi puliti delle altrui interpretazioni. È un capolavoro. Punto. Quando sarà possibile, voglio andare con mia zia a Buenos Aires, e le chiederò di mostrarmi, per quello che può, l’Argentina di Puig e di Conti. Lo so che è cambiata, e non voglio intrufolarmi morbosamente in un orrore storico che non è il mio. Ma vorrei capire. Vorrei almeno capire.
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