C'è da
premettere un paio di cose, riguardo al libro di cui mi accingo a
chiacchierare. La prima è che ho per Catherine Lacey la più
profonda inclinazione letteraria, e che mi ha tenuto una perfetta
compagnia nel mezzo della quarantena – sapevo che l'avrebbe fatto;
una mattina di marzo sono uscita per andare in una piccola libreria
nelle vicinanze per ordinarlo, addossata all'entrata mentre la
libraia si segnava il mio numero a due metri buoni da me, dietro la
cassa. Il giorno stesso Conte ha annunciato la chiusura totale, e non
è che me ne lamenti, sia chiaro, era sicuramente la soluzione più
giusta, ma quanto mi è scocciato non potermi avvalere della
compagnia di Catherine in quei primi giorni in cui sembrava dovesse
crollare il mondo, pure i magazzini erano bloccati, e A me puoi dirlo
è arrivato in libreria dopo settimane di clausura, non ci potevo
credere dalla gioia. La seconda cosa da puntualizzare è che ho letto
questo libro e poi l'ho passato a Coinquilina, che pure lo ha letto
nel giro di un paio di giorni – e le è piaciuto quanto è piaciuto
a me, siamo d'accordo sul fatto che si tratti di un romanzo diverso
dai due che l'hanno preceduto, Nessuno scompare davvero e Le
risposte, in cui troviamo protagoniste con cui ci viene
facilissimo immedesimarci, l'empatia te la strappano fuori come una
lumaca dal guscio, mentre A me puoi
dirlo è più calmo e ponderato, sagace e interessantissimo.
C'è pure da
dire che io e Coinquilina abbiamo letto due libri diversi; nel senso
che lei ha messo insieme certe incongruenze, certi tocchi inquietanti
– che per me facevano più ambiente che trama, ecco – e li ha
automaticamente organizzati in una risoluzione che avevo trovato
immaginabile ma non certa, e che piuttosto avevo dato per inattuata.
Non sono,
per così dire, una persona particolarmente intuitiva.
Detto
questo, parlerò del libro che ho letto e non di quello che ha letto
Coinquilina, anche se la sua versione mi pare assai più plausibile.
A me puoi
dirlo – edito da Sur nella traduzione di Teresa Ciuffoletti – inizia con un ritrovamento, quello del protagonista e
narratore. Ha passato la notte dormendo in chiesa, steso su una
panca. La domenica mattina si ritrova immersa in una funzione
religiosa, circondata dai membri di una famigliola che pare uscita
dalle pubblicità smarmellate del Mulino Bianco negli anni novanta.
Tre bambini – iniziamo da un quasi adolescente per arrivare a un
infante – la bella madre Hilda e il solido padre, Steven. Finita la
messa, gli chiedono di andare con loro, lo portano a pranzo e poi se
lo tirano dietro fino a casa. La protagonista non parla. Le fanno un
sacco di domande, lui non risponde, perché non ha niente da dire.
Neanche il suo nome, la sua nazionalità, il suo genere – noterete
che salto liberamente dal maschile al femminile, ed è perché mi
sembra un modo più efficace di rendere il concetto di gender fluid,
ammesso che il protagonista sia davvero gender fluid, non sembra che
del proprio genere gli importi davvero, è un argomento di
discussione soltanto per chi le sta attorno. Il nome che le danno è
Panca, perché in chiesa l'hanno trovato su una panca. La famiglia se
lo tiene in casa, lo porta a cena da alcuni amici che hanno adottato
un ragazzo proveniente da una zona di guerra, sperano che facciano
amicizia. La portano da uno psicologo, cercano di integrarlo nella
narrazione edificante di una pecorella smarrita accolta da una
famiglia di buoni samaritani – la religione è centrale nella vita
di questa comunità stranamente, univocamente unita. Per quanti
sforzi facciano, Panca non parla. Non sono persone di cui senta di
fidarsi, o con cui possa interessargli avere un confronto. Quel posto
non fa per lei né per lui. Tutto ruota attorno al Festival del
Perdono, una festa annuale in cui ogni colpa viene lavata via dalla
catarsi. Panca non ha nulla da lavarsi via di dosso. Capita che
condivida qualche parola con altre persone, ma solo quando le trova
simili a sé, quando hanno qualcosa da dire, quando sono persone che
cambiano a seconda di quello che sentono – e non individui
attentamente delimitati da paratie stagne che non riuscirebbero a
farsi toccare da niente.
A me puoi
dirlo è un romanzo splendido, meno intenso – meno disperato –
rispetto ai primi romanzi di Catherine Lacey. La protagonista non è
una persona che nel bel mezzo di un momento di profonda e dolorosa
crisi esistenziale si getta nel fluire di altre vite e si sente
cambiare per poi ritrovarsi la stessa – adattarsi, accettarsi –
quanto una persona che capita in una comunità che fa di sé
un'autonarrazione stabile, sicura ed egocentrica, e non ne viene
particolarmente toccata. È piuttosto la comunità a fremere, nel
vedersi riflessa negli occhi di qualcuno che non rimanda
automaticamente amore e devozione. Non potrei certo raccontare Panca
come un personaggio stabile e sicuro, come un adulto che ha in un
certo senso compiuto il proprio arco narrativo e ora sa con sicurezza
cos'è e cosa vuole – primo, perché Panca è adolescente,
secondariamente perché l'adulto fatto e finito è una totale
mistificazione e gli adulti sono solo adolescenti con più rughe e
con la panza meno tonica.
Lo
consiglierei come primo approccio a Catherine Lacey? Non lo so. Per
me Nessuno scompare davvero rimane il romanzo perfetto per spiegare
perché la adoro; so anche che mio padre, dovendogliene consigliare
uno, preferirebbe di gran lunga Le risposte. Mio fratello
probabilmente adorerà – il giorno lontano che potrò scendere in
Liguria – A me puoi dirlo. Dipende dal titolo, dipende dal lettore.
Io della Lacey sono letterariamente innamorata, non faccio testo.