Lolly Willowes o l'amoroso cacciatore di Sylvia Townsend Warner - Un manifesto femminista in agguato


C'è da dire che quando mi piglia di leggere un libro, evito accuratamente di informarmi delle sue generalità, così da non rovinarmi la minima sorpresa. Avevo letto su twitter uno stralcio di Lolly Willowes o l'amoroso cacciatore (opera prima di Sylvia Townsend Warner, edito in Italia da Adelphi nella traduzione di Grazia Gatti) e avevo deciso subito di volerlo leggere. Non ho indagato oltre, e credo di aver fatto bene; non so quali fossero le intenzioni di Sylvia, ma questo è stato davvero un agguato. Il modo migliore di spiegarlo è ipotizzare che un tipografo ubriaco abbia messo insieme mezzo romanzo di Jane Austen e mezzo di Shirley Jackson – forse detto così non è chiarissimo, ma plaudo mille e mille volte al risultato.



Abbiamo Laura – o zia Lolly, per i nipoti e tutti gli altri membri della famiglia – che ha sempre vissuto nella tenuta di famiglia di Lady Place, nelle campagne inglesi, fino alla morte del padre; dopodiché della proprietà prendono possesso un fratello e la moglie, e Laura viene accolta dalla famiglia dell'altro fratello, a Londra. Il fratello e la cognata vorrebbero maritarla – al suo arrivo a Londra ha ventinove anni, il tempo sta scadendo in fretta – e le propongono di settimana in settimana scapolotti da vagliare, che Laura non manca di scartare. Ha due nipotine e un nipotino, Titus. Sono loro che iniziano a chiamarla zia Lolly, e quel nome non le si toglie più di dosso.

Passano gli anni – troppi – e capita che un giorno – perché va da sé che qualcosa deve cambiare, una crisi deve innescarsi perché il romanzo vada a parare da qualche parte – si trovi in una bottega e rimanga ipnotizzata dalla merce esposta. Dai fiori, dai frutti fragranti; prende forma dietro i suoi occhi l'immagine vivida di una vecchia che raccoglie le pere una ad una, da un prato che le sembra incantato. Le manca la campagna, Laura ha sempre adorato i boschi, i campi incolti, la natura nella sua versione più selvaggia e meno addomesticata. Di colpo, decide di trasferirsi nel paesino sperduto da cui provengono quei frutti. Incontra qualche resistenza in famiglia – ovviamente – ma cosa possono dirle? Ormai ha quasi cinquant'anni, è una donna fatta e finita.

Ora, fino a questo punto e ancora per qualche pagina, il romanzo trascorre in tutta calma e dolcezza. È placido, non noioso, ma poco ci manca. L'avrei visto benissimo nei panni di un'altra casa editrice – nelle vesti fiammanti di Astoria, un classico riproposto da Fazi nella sua collana dedicata alla letteratura femminile, o recuperato dalle ragazze della Jo March. Poi c'è un colpo di reni. Un momento così piccolo che lì per lì lo si scambia per una fantasia un po' sciocca. E la vita di Laura, pur rimanendo la stessa, cambia radicalmente. Radicalmente è un termine chiave.



Io non voglio dirvi come. Perché è una bellissima sorpresa che Sylvia ha impacchettato in mezzo alla vita tranquillissima di una donna che dall'esterno appare più che tralasciabile. Laura non cambia, piuttosto si riconosce. Va oltre l'accettazione. Decide di dimenticarsi delle pretese del mondo, e questo è meraviglioso.
Ci sono tanti elementi che Sylvia affronta e riprende attraverso gli occhi entusiasti di Laura; la natura, i boschi, la loro essenza senziente. Le consuetudini, i valori, il costo largamente taciuto delle catene che la società piazza alle caviglie e ai polsi delle donne – maritate e zitelle. La questione femminista è fortemente personale. La rabbia appassionata è una risposta tutto sommato tiepida a una vita aggredita in modo così subdolo e culturalmente accettato che neanche gli aguzzini si riconoscono come tali.
Questo libro, questo libro è quello da far leggere alle vostre zie attempate, alle vostre nonne. Se non cambierà niente, qualcosa era già cambiato. In caso contrario, non cambierà niente, ma solo all'esterno.
(nel caso delle mie zie, non cambierebbe proprio niente; mi hanno insegnato la lezione di Laura che ancora facevo le elementari, siamo una famiglia un po' così).
(meno male).