Il
pantarèi di Ezio Sinigaglia è uscito in origine nel lontano 1985
per l'editore SPS, e per decenni non se ne è più saputo nulla – come
accade al 95% delle opere letterarie dopo la pubblicazione, che il
tempo ferisce spesso senza riguardo. Nel 2016 l'autore pubblica un secondo romanzo con
Nutrimenti, Eclissi, e nel 2019, dopo trent'anni e passa di silenzio,
Terrarossa ha riacquistato i diritti dell'esordio, riportandolo in
libreria nella collana Fondanti.
Per
qualche mese se ne è parlato parecchio, difatti era uno degli
acquisti che mi ero preposta di concedermi al Salone del
Libro dell'anno scorso. L'ho abbrancato forse il penultimo giorno di
Salone, arrivando allo stand Terrarossa con il disperato bisogno di
un libro con cui potermi prendere una pausa dalla furia affollata del
Lingotto – scema com'ero, avevo deciso di non portarmi dietro
niente da leggere, tanto mi aspettava una fiera dell'editoria; mi
ricordo stralunata e incoerente a vagare in cerca di un posticino
isolato, trovato all'ombra di una sala incontri – unico testimone del mio
breve eremitaggio, un addetto alla pulizia che mi ha chiesto se
andava tutto bene.
Tutto
bene, sì, ma Il pantarèi iniziava linguisticamente complesso, sintassi e
semiotica si prendevano una certa libertà che lì per lì non riuscivo a capire, mi ha
lasciata con la testa ancora sbandata – avevo bisogno di frase
chiare e semplici, cui affibbiare un senso compiuto – ed è finita
che l'ho ignorato per la bellezza di undici mesi, perché aspettavo
un buon momento per iniziarlo e il buon momento sembrava non arrivare
mai. La chiusura delle biblioteche mi ha obbligata a fare una cernita
dei libri a mia disposizione – a ben vedere una dispensa che mi
basterebbe per venti quarantene, visto che gli scaffali della mia
coinquilina traboccano di Adelphi, Michele Mari, per non parlare
della saggistica – ed è capitato che un giorno, finalmente,
riprendessi in mano l'opera prima di Sinigaglia, superando le prime
pagine di pensiero sconnesso e lasciandomi infiltrare in mezzo alle
righe lievi e metaletterarie di un editor e ghostwriter che si trova
per lavoro a dare un senso alla letteratura del '900.
Daniele
Stern ha trent'anni, lavora coi libri con l'instabilità che oggi
diamo per scontata per gli operatori del settore culturale. Sei mesi
prima la moglie Anna l'ha lasciato, e lui è ancora perso nei ricordi
e nella furia sentimentale che comportano. Una grande casa editrice
gli affida la rimessa in sesto strutturale di un volume di
un'enciclopedia indirizzata alle donne moderne, quello dedicato
appunto, alla letteratura del '900. Una lista di autori e una certa
discrezionalità, Stern inizia a lavorare sul concetto di romanzo, la
cronaca della sua morte annunciata e disattesa, l'attacco kamikaze
dei narratori più influenti degli scorsi decenni. C'è Proust, ci
mancherebbe, ci sono Joyce e Kafka, Cèline e Musil. Stern si siede
davanti alla sua Olivetti – mio nonno ne aveva una uguale,
nostalgia canaglia – e teorizza sulle strutture narrative, i
contesti storici e culturali, le ideologie e quello che ne fanno gli
uomini – gli scrittori. Poi si alza dalla scrivania, vaga per la
stanza, vive a tratti la sua vita rabbecciata e la narrativizza. In
un primo senso Il pantarèi è un metaromanzo perché discute della
natura del romanzo; in seconda battuta è metaromanzo perché lo
stile di scrittura viene costantemente rimaneggiato perché sia
l'espressione diretta dello stato emotivo del protagonista, e
l'autore compare sulla pagina come istanza narrativa, si fa notare
deciso invece di lasciarsi cancellare da bravo costrutto semantico.
La terza battuta, ora ci arrivo, è forse quella più interessante –
ma lo dico apertamente, è questione di gusti.
Il
pantarèi riflette sulla scrittura con l'efficacia e la puntigliosità
di un saggio, non tanto perché Stern cogita e postula su quello che
è la scrittura per lui, ma perché leggendo è inevitabile
interrogarsi su come si scriva, sul perché si scriva come si scriva.
Per quale ragione determinate forme sintattiche sono più indicate di
altre, perché un certo lessico si adatta meglio al racconto di una
situazione? Il romanzo è stato codificato come prassi ineludibile da
fior di studiosi, la narrazione intesa come storia deve spiegarsi
definitamente in un continuum temporale al di fuori del quale non
possiamo concepirlo.
Cos'è
la letteratura? Chi decide che un Joyce che attacca gli schemi lo fa
a ragion veduta rispetto al diciassettenne infiammato dalla visione
bohèmien di Baudelaire che sbrodola sulla pagina senza un filo
logico affidandosi all'istinto, pensandosi degno di pubblicazione –
che politicamente parlando è certo più rispettabile dei futuristi
coi loro allegri zuuuuum turm bang?
Quindi
c'è tutta questa questione interna al romanzo e che esula dal
romanzo. C'è anche l'arco narrativo di Stern, che in un certo senso
svicola dall'incompiutezza del caro Musil, emancipandosi da una certa
parte di sé pur restando fermo in se stesso. La sua storia personale
è certo importante, ma non è la più importante, o quella che
designerei come fulcro dell'opera in sé. Il pantarèi racconta delle
giornate di Stern durante la stesura della sua parte enciclopedica e
del suo rapporto con la scrittura che cambia, parte da un netto
rifiuto e si evolve poco a poco, una voce enciclopedica dopo l'altra.
E diventa a un certo punto vivace, estatico, meravigliosamente fine a
se stesso – che è la versione più pura di letteratura.
E
c'è tutta la questione del tempo, il tempo narrativo e quello
personale, e io mi ci sto arrovellando da giorni; il tempo come
dimensione e illusione, il tempo relativo e incostante dal quale non
possiamo scappare – con lo spazio, dopotutto, abbiamo la
possibilità di regolarci. È strano trovarsi col presente in mano e
non sapere che farci; accettarlo è il funerale di tutte le persone
che siamo stati fino a quel momento. Rende liberi e agenti, riapre le
incognite – scegliendone una uccidiamo le altre, falcidiamo tutte
le persone parallele che siamo nella moltitudine degli universi
alternativi che finiscono per darci la caccia come il passato,
quell'infame reazionario.
Si
sarà capito che mi è difficile parlare del pantarèi senza accusare
qua e là un'interruzione del senso. Ultime considerazioni: è un
romanzo malinconico, e in un paio di punti Stern mi ha tenuto la mano
e mi ha fatto bene.
(traduzione
in soldoni: mi è piaciuto un sacco).