Più donne che uomini di Ivy Compton Burnett,
tradotto da Stefano Tummolini, appena uscito per Fazi che
cordialmente me ne omaggia una copia, – che io poi mi porto in
viaggio e infilo nella stessa borsa di una focaccia che,
orgogliosamente ligure, mi impantana tutto d'olio. Accidenti.
Sarò onesta – anche perché sennò che lo tengo a
fare, un lit-blog? – nell'ammettere che il primo impatto con questo
romanzo è stato a dir poco stridente, e mi ci è voluto un po' a
capire perché. Voglio dire, mi era chiaro fin da subito come fosse
fatto, la superficie composta da presentazioni brevi ed esplicite di
personaggi che mi parevano un po' tagliati con l'accetta, le
scarnissime descrizioni delle scenografie e dei costumi, i dialoghi
continui che coprono almeno 2/3 se non 3/4 – o più – del
romanzo, tutti sfoggio di sagacia e mezze verità e verità
dissimulate. C'è voluto quasi metà libro perché comprendessi cosa
stava scrivendo la Compton Burnett, e perché. A quel punto mi sono
venuti i brividi, le pagine hanno iniziato a girarsi da sole e io ho
sentito quella puntura di quando un romanzo ti cambia da dentro, ti
mette in guardia contro te stessa o, nel caso specifico, ti sputa in
faccia.
Non è stata una lettura indolore, tantomeno innocente.
Leggera la è stata solo fino a un certo punto, solo in superficie,
perché la narrazione scorre in una quasi totale assenza di
arrovellamenti e descrizioni. Dapprima, poiché i miei gusti vanno in
tutt'altra direzione – voglio sapere dell'infanzia dei personaggi,
dei loro traumi più reconditi, cosa li ha resi quello che sono, e
poi di che colore è la carta da parati, la luce entra dalle finestre
o è ostacolata dalla polvere? – questo aspetto mi disturbava, e mi
chiedevo cosa avesse avuto Virginia Woolf da ammirare tanto in Ivy
Compton Burnett, – che poi a me la Woolf non sta per niente
simpatica, un po' mi si stava avvelenando il dente. Poi ho compreso
quello che quest'ultima voleva fare di questa trama e di questo libro
e il mio interesse letterario è schizzato alle stelle.
Il mondo finzionale di Più donne che uomini –
un gruppuscolo di personaggi che girano attorno alla direttrice di
una scuola femminile, Josephine Napier, nella campagna inglese
all'inizio del '900 – è raccontato proprio attraverso i dialoghi;
ma i dialoghi sono esplicitamente fatti di cortesia e dissimulazione,
sono battaglie combattute dietro una trincea di reputazione tenuta su
col cemento armato e finzione. Un teatrino con attori inconsapevoli e
non sempre scafati, un'unica regista – Josephine, appunto – e
qualche regista mancato, marionette e comparse, relazioni che vengono
ridotte a funzioni e altre che assurgono a finalità.
E nell'immediato non l'avevo capito, vedevo soltanto la
superficie, queste tizie e questi tizi che chiacchieravano
immerlettando ogni frase, come se stessero recitando una commedia –
o una tragedia – di cui non avevano che un canovaccio e di cui io
da lettrice ero inconsapevole, dal centro di una scena di cui non
sapevo darmi un senso.
E poi il senso l'ho capito; per Ivy Compton Burnett
queste personaggi che io pensavo stessero vivendo con naturalezza,
stavano effettivamente recitando. Molto pirandelliano, ma con più
eleganza e affabulazione.
Ma dunque, la trama, che finora ne ho detto poco e
nulla.
Siamo appunto nella campagna inglese, e c'è questo
collegio per signorine di buona famiglia. Siamo all'inizio dell'anno
scolastico, e la direttrice – Josephine Napier – sta dando il
benvenuto, il bentornato, alle sue insegnanti. Vengono presentate
tutte in fila, che entrano ed escono dal suo studio dopo un breve
scambio di facezie. I loro caratteri vengono spiegati in poche righe,
insieme al loro aspetto e al loro lavoro. Un'introduzione che più
introduzione di così non poteva dirsi.
La vita di Josephine tuttavia non è limitata alla
scuola; ha un fratello, Jonathan, al quale è molto legata, che vive
col suo compagno Felix, che diventerà insegnante di disegno presso
il collegio di Josephine; e poi c'è il figlio di Jonathan – madre
ignota – che abita insieme alla zia Josephine e al marito Simon,
che se ne prendono cura come se fosse loro.
Capita che vengano a bussare alla porta una vecchia
amicizia di Josephine insieme alla giovane figlia; e che il passato
già si incrini nel ricordo di un antico tradimento che viene
spiattellato apertamente, in modo che appare volgare, in mezzo a
tutta quella raffinata dissimulazione. E accade pure una tragedia,
che adesso non sto a esplicitare per non rovinare la sorpresa.
Il punto è che in seguito alla tragedia e all'arrivo
delle due questuanti, che diventano attori nel palcoscenico di
Josephine – una diventerà la sua governante, l'altra insegnerà
presso la sua scuola – cambiano le carte in tavola. E il gioco
cambia, si fa più scaltro e ardito, ciò che prima era un banale
rubamazzo diventa un'accanita partita di poker.
Quello che contraddistingue un racconto non è la storia
in sé, ma il modo in cui si sceglie di raccontarla. Il tono, i punti
di vista, l'intensità etc. Mi sovviene Alan Bennet in La
cerimonia del massaggio, che ha raccontato un dramma in toni
allegri, ma perfino Bennet risulta più drammatico di Ivy Compton
Burnett, che in Più donne che uomini ricama in 250 pagine
scarse traumi e lutti e tradimenti e anime nascoste e... sinceramente
non so se sono stata io tarda ad aver compreso così tardi quello che
stavo effettivamente leggendo, o se la narrazione stessa fosse
un'acuta dissimulazione. Mi è difficile comprenderlo perché io
stessa come giocatrice sono scarsissima, magari stiamo giocando a
scala quaranta e io ho già preparato le schedine della tombola. Ma è proprio per questo, dopotutto, che mi ha colpita tanto.
È stata una lettura strana e intensa, che mi sento di
consigliare nonostante l'inizio traballante. Oltre gli scambi c'è
di più.