L'isola di Arturo di Elsa Morante

Elsa Morante ha un nome ingombrante in letteratura, uno di quelli che ogni lettera è maiuscola. E L S A M O R A N T E. È difficile approcciarsi a un nome così come se nulla fosse, viene da avvicinarsi in punta di piedi che non si sa mai, magari non piace, magari non si capisce, magari finisce come con Pirandello che tutte le volte che ammetto di non essere mai riuscita a leggerlo mi sembra di dovermi giustificare.



L'isola di Arturo, dunque, secondo romanzo della suddetta MORANTE, iniziato nel 1952 e pubblicato per Einaudi nel 1957, Premio Strega, giustamente. Il mio primo approccio con la MORANTE, che a leggerla è diventata Elsa Morante, forse perfino Elsa, perché L'isola di Arturo è così inaspettatamente scorrevole e approcciabile che l'autrice si toglie il mantello da Cavaliere della Letteratura Italiana e si fa scrittrice e basta, il libro torna a manifestarsi come un semplice e godibilissimo, ancorché profondo e talvolta tagliente, ricettacolo di storie e ore da passare.





Dicevo, L'isola di Arturo. L'isola di Arturo è Procida, parte della città metropolitana di Napoli – mi informa wikipedia – che conta ad oggi poco più di 10.000 anime, dalla quale ci si può spostare con due traghetti al giorno, almeno tra le due guerre mondiali, nel periodo raccontato da Arturo. Uno spazio fatto di spiagge, rocce, colline boscose che Arturo abita come se fosse suo per intero; un ragazzino selvatico, solitario in quanto solo, che si aggira per l'isola seguendo soltanto il proprio istinto, ripetendosi in testa mille sogni diversi, vivendoli con un'intensità che la realtà non può eguagliare.




Arturo racconta in prima persona, e lo fa a distanza di decenni, senza però negare la potenza delle emozioni che lo frastagliavano al tempo di Procida. Ha trascorso l'infanzia in solitudine, orfano di madre fin dalla nascita, nella cosiddetta "casa dei guaglioni" insieme al padre, che trascorre a Procida solo una piccola porzione del suo tempo, trascorso perlopiù in viaggio. Arturo da piccolo aveva a tenergli compagnia soltanto la cagna Immacolatella e un balio, Silvestro, un uomo buono e rozzo che però si fa una vita quando Arturo è ancora un bambino, lasciandolo mezzo solo sulla sua isola.

Arturo ha circa quattordici anni quando il padre torna a Procida con una sposa; Nunziatella, una ragazzina che ha appena un anno più del figliastro, cresciuta nell'assoluta devozione cattolica, che prega e cucina e non ha molti altri modi per esprimersi, anche se questo non nega la sua natura intensa e un po' selvatica, cui Arturo risuona in un modo che lui non vorrebbe. Essendo un ragazzo solo, vive con violenza quei pochi rapporti che ha; quello col padre e quello con la matrigna – ma si può definire matrigna una ragazzina, specie se il figliastro non riesce ad accettarla come tale? Nel primo vede un eroe, un esempio, la figura verso la quale protende tutto ciò che vorrebbe diventare un giorno. Sogna di partire con lui, esplorare il mondo intero, vivere mille avventure provando di giorno in giorno il proprio coraggio. Arturo, cinto dalle catene di un'isola piuttosto piccola, non vede l'ora di gettarsi nel mare e oltre il mare, e di dimostrare a suo padre che vero uomo potrebbe essere.




Allo stesso tempo c'è Nunziatella, una ragazzina ignorante che pretenderebbe di avere cura di lui, di servirlo come se fosse un figlio, e Arturo se ne sente insultato, teme di essere agli occhi di Nunziatella una propaggine del padre e poco altro. È un rapporto vissuto in modo burrascoso, perché Arturo, dopotutto, è confuso e non ha niente a guidarlo in quello che prova. Suo padre odia le donne, visceralmente; la casa dei guaglioni è un'estensione di quest'odio, avendola lui ereditata da un facoltoso amico che le donne non poteva proprio vederle.




L'isola di Arturo, in un certo senso, è tutta qui. Sono le estreme passioni di un uomo che ripesca la sua gioventù, e la racconta con un'onestà spietata. Lo possiamo chiamare “romanzo di formazione”, possiamo bearci della prosa e di tutte quelle volute inesattezze che lo rendono musicalmente ineguagliabile. C'è anche il fatto che si tratta di un'opera profondamente innocente, perché è con innocenza che Arturo ha vissuto quegli anni, con una crudele inconsapevolezza, barcamenandosi tra il bene che voleva e il male che faceva e il compiacimento che riusciva dopotutto a trarne.

Non mi è facile trovare la chiusa per questa recensione, se proprio di recensione vogliamo parlare. L'opera in esame è stranamente circoscritta – pochi personaggi, pochi scenari, un unico punto di vista – eppure è piena, ribollente, strabordante. È un'esperienza, e io personalmente consiglio di farla.