Philip K. Dick è stato uno scrittore estremamente
prolifico; ha scritto più di quaranta romanzi, i racconti non li
conto nemmeno, la saggistica non la approccio neanche. Nato nel 1928
a Chicago, esordisce nel 1955 con Solar Lottery (Lotteria
dello spazio), dichiara in un'intervista a Rolling Stone che
l'intera produzione precedente al 1970 è stata scritta sotto gli
effetti di anfetamine debitamente prescritte dal medico, nel '74 vive
un'esperienza psicotica – la ragazza col ciondolo dorato – e da
lì in poi ha inizio una lunga crisi mistica. Muore a Santa Ana nel
1982 per un attacco cardiaco, ed è difficile immaginare una perdita
più grande nel panorama della fantascienza, o della letteratura in
generale.
Era un personaggio complesso, questo è fuor di dubbio.
Aveva un bizzarro rapporto con la figura femminile – ce lo
raccontano i suoi divorzi come la sua opera – e una relazione
burrascosa con anfetamine e allucinogeni. Con la realtà aveva una
relazione ancora più strana, sezionata e sviscerata attraverso la
sua bibliografia, e i suoi protagonisti condannati a sentirsi la
terra mancare da sotto i piedi e la visione sfaldarsi in un un
caleidoscopio di paure e domande, prima fra tutte “Quello che sto
vivendo è reale?”.
Difficilmente si può abitare l'attuale contesto
letterario senza conoscere le opere più celebri di Dick, Il
cacciatore di androidi o Ma gli androidi sognano pecore
elettriche?, da cui è stato tratto il cult cinematografico Blade
Runner (Ridley Scott, 1982), La svastica sul sole o L'uomo
nell'alto castello.
Poi ci sono le altre opere, quelle non troppo
conosciute, lette da una minima frazione dei lettori che si sono
approcciati ai capolavori sopracitati. La produzione post-crisi
mistica, che oggettivamente può risultare un po' ostica per via dei
continui riferimenti teologici e filosofici. E poi quelli che
personalmente definisco “capolavori secondari”, perché sono
delle dannatissime meraviglie e trovo inconcepibile che non si siano
ritagliate uno spazio più rumoroso, come Svegliatevi, dormienti e In
senso inverso, nonché il romanzo di cui, dopo tutta 'sta
pappardella, mi accingo a parlare.
Noi marziani,
scritto nel 1962 e pubblicato nel 1964, è interamente ambientato su
Marte e racconta la brutale colonizzazione del pianeta rosso, il
cinismo dietro la speculazione edilizia, la freddezza dei rapporti
umani in un ambiente desolato. Ma soprattutto, il nucleo del romanzo
è la tensione tra uomo e realtà, tra individuo e interpretazione
della realtà, tra il mondo sano e il mondo folle, che Dick si
rifiuta di presentarci meno orribile di quello che è. Interessato
alla psicopatologia e alle teorie Junghiane, è palese che Dick
sappia di cosa sta parlando, che quella che sta maneggiando – la
malattia mentale – è una materia che conosce a fondo e della
quale, oltre ad avere esperienza diretta, si è fatto un bel po' di
idee. Idee strane, bizzarre e debitamente narrativizzate, originate
da una frazione di realtà che per Dick dev'essere puro terrore. È
per lui che la realtà si fa incerta e incoerente, è lui che non
riesce a distinguere ciò che è vero dai parti della sua mente. È
stato strano e spaventevole leggere delle psicosi dei suoi personaggi
in Noi marziani e sapere che a tormentarli erano gli stessi orrori
che hanno trascinato Dick sull'orlo del suicidio più volte nel corso
della sua vita.
Ma dunque, cerchiamo di scindere opera e autore, anche
se in questo frangente è un po' difficile. Jack Bohlen è un
riparatore meccanico e vive su Marte da anni con la moglie Silvia e
il figlioletto David. Fin qui tutto normale, almeno in apparenza.
Jack è uno schizofrenico, o almeno, ha avuto un episodio di
schizofrenia parecchio violento quando era un giovane terrestre. La
peggiore esperienza della sua vita, e non ha alcuna intenzione di
riprovarne di simili. Mentre si sta recando a riparare un automa
nella scuola del figlio, incontra nel deserto un gruppo di Bleekmen
(i marziani nativi, quasi degli aborigeni) che stanno morendo di
sete. Si ferma a soccorrerli, e con lui Arnie Kott, Membro Supremo
del Sindacato degli Idraulici, freddo e spietato affarista. Fosse per
lui, lascerebbe pure i Bleekmen a morire, ma la legge e Jack lo
costringono a fornire loro assistenza. Arnie non se lo dimenticherà,
il suo misero rancore per il riparatore glielo farà assumere, per
tenerlo vicino e per poterlo rovinare come meglio crede.
Su Marte, a Nuova Israele, c'è un centro per i bambini
con problemi mentali, ed è lì che risiede Manfred, il figlio
autistico dei vicini di Jack. Uno psichiatra, il dottor Glaub, è
venuto a conoscenza di una teoria secondo la quale l'autismo sarebbe
un problema di gestione del tempo; gli autistici vivrebbero a
velocità spaventevole rispetto a quella normale, potrebbero perfino
vedere il futuro. E va da sé che la cosa ad Arnie Kott possa
interessare parecchio. Ed è con la scusa di fargli costruire una
macchina in grado di comunicare con Manfred, che Arnie intrappolerà
Jack e il suo tempo, che inizierà a risuonare del disturbo di
Manfred e...
E così via. La trama si mette in moto – o forse in
moto lo era già – e la storia si fa viva, le chiavi di lettura si
sprecano, la definizione di realtà si sfalda tra le pagine.
Eccetera. È un romanzo a tratti straziante, a tratti dolorosamente
consolatorio. A leggere come Dick conosceva la malattia mentale nel
'62, mi verrebbe pure da credere che abbia fatto lui stesso un salto
nel tempo, a dare un'occhiata alla storia della psicopatologia
clinica in un futuro che non era solo il suo, ma sarà pure il
nostro.
Potrei intitolare questa recensione “Com'è che Philip
K. Dick è diventato uno dei miei scrittori preferiti”, non fosse
che c'era già arrivato con In senso inverso.