L'estate scorsa è uscito il primo volume della trilogia
dedicata alla famiglia Aubrey di Rebecca West, e vi consiglierei di
recuperare quella recensione prima di leggere oltre se ancora non l'avete letto,
perché qui si chiacchiera del seguito, – anche se non è che si tratti di un'opera dai risvolti inaspettati,
che tenda favolosi agguati all'aspettativa del lettore. Ma le saghe si leggono
in ordine – o si dovrebbero leggere in ordine, mia sorella ha
iniziato Harry Potter dal quarto volume e l'ha adorato ugualmente.
Rebecca West (1892-1983) è nata a Londra col nome di
Cicely Isobel Fairfield, ha scelto il suo pseudonimo letterario di
un'eroina femminista di Henrik Ibsen, è stata ua suffragetta, come
giornalista ha raccontato i processi di Norimberga e, in un acclamato
diario di viaggio intitolato Black lamb and gray falcon
(1941), la Jugoslavia.
La trilogia sulla famiglia Aubrey è dichiaratamente
autobiografica, almeno in parte. Mi chiedo quanto ci sia di vero e
quanto sia enfatizzato nei genitori della protagonista Rose, nel suo
rapporto con la musica e con le sorelle – Mary e Cordelia, la prima
una gemella vissuta troppo da vicino per sentirla distinta, la
seconda una sorella maggiore scomoda e irritante – e il fratello
Richard Quinn, la cugina Rosamund, il mondo tutto e poi la
guerra.
Nel cuore della notte, uscito postumo nel 1984 e
arrivato in Italia poche settimane fa per Fazi nella traduzione di
Francesca Frigerio, mi è piaciuto tanto, troppo, in quel modo che
non riesci neanche a capire del tutto. Ha qualcosa che non avevo
trovato nel primo volume, che era stato davvero una bella lettura,
ben più che gradevole, ma senza trasformarsi nella frenetica mezza
maledizione che impedisce di staccarsi dalle pagine. Un bel
libro, La famiglia Aubrey, seguito da questo secondo volume
che è uno sparo fiorito, e mi fa capire pienamente come mai Rebecca
West venga accostata a Elizabeth Jane Howard, – autrice della saga
dei Cazalet e di altre opere meravigliose che non vorrei dire, ma
quando non ci sarà più nulla della Howard da tradurre una parte di
me morirà un po'.
Rose e Mary stanno diventando adulte, hanno terminato i
loro studi superiori e si dedicano interamente al piano. Richard
Quinn è un adolescente, ed è diventato esattamente quel fenomeno
che la sua infanzia luminosa preannunciava. Basta che entri in una
stanza perché i presenti si rianimino, ma quella sua freddezza di
fondo ogni tanto arriva in superficie, ed è un po' struggente come
diventi pienamente umano soltanto con Rosamund – ma è struggente
con reciprocità, quindi credo vada bene così, o forse è anche
peggio. Rosamund studia da infermiera, Kate prepara torte, la madre
delle ragazze, Clare, segue tutti quelli che le stanno intorno come
fossero figli suoi e si lascia essere pienamente se stessa, ora che
il marito li ha abbandonati – o si è abbandonato da solo per non
affondare tutti.
Adoro il personaggio di Rosamund – la cugina
bellissima e apparentemente un po' tonta, genio degli scacchi e forse
salvatrice dell'umanità – quanto adoro Clare. Hanno qualcosa in
comune, quella consapevolezza del mondo per com'è fatto in tutto il
suo orrore e le sue magagne che si accompagna alla volontà di non
arrendersi allo scatafascio. È come se sapessero che la notte è
buia e il domani incerto, e scegliessero comunque di lasciare una
luce accesa fuori dalla porta, e un cestino per il pranzo sul portico,
perché non si sa mai, qualcuno potrebbe averne bisogno e anche
l'ultimo dei demoni potrebbe avere avuto una brutta giornata. Non è
idiozia, non è ingenuità. Io la chiamo forza.
Nel cuore della notte è più breve del romanzo che lo
precede, ma è comunque pieno dell'Inghilterra di inizio '900, di remore e
cambiamenti e di quotidianità, - almeno fino all'arrivo della
guerra, ma anche a quel punto il dramma non viene drammatizzato,
anche gli orrori diventano questioni di tutti i giorni da affrontare
senza ricamarci sopra.
Personalmente, credo che leggerò quanto prima il
racconto di Ibsen da cui è sorta Rebecca; ho voglia di capirla
ancora più a fondo.