La carne di Cristò e il suo mondo fermo

Gli zombie hanno smesso di farmi paura da un bel po' di tempo; non che io non legga o guardi nulla che contenga zombie, anzi. Ci sono titoli più che meritevoli, soprattutto se parliamo di audiovisivi – tralasciando il mainstream più mainstream di George A. Romero e Shawn of the Dead, segnalo la mini-serie Dead set, dai creatori di Black Mirror – ma di per sé non è che mi ispirino granché; in una narrazione ben fatta, lo zombie di solito è pura funzione, perché aggiungergli qualcosa più della fame e dell'eterna ricerca di cervelli sarebbe come umanizzarlo, snaturandolo della minaccia che porta con sé. Quella di poter diventare come lui, prima di tutto.
(nonché una delle morti più atroci che si possano immaginare, eh, non lo nego).
Lo zombie è un fattore che riporta la società all'essenziale, cancellando tutto ciò che è superfluo. Guarda la specie umana coi suoi occhi vuoti, da pesce pescato la settimana prima, e sai che vuole tirarti oltre quella linea di demarcazione che vi separa. È una strana guerra, quella contro gli zombie. Un nemico che vuole prenderti con sé dopo averti divorato, un nemico che potrebbe diventare il tuo commilitone. È anche una guerra che da un lato non ha istanze, e da quel punto di vista è impossibile ricamarci sopra. Quando si parla di zombie, il racconto ha il suo fulcro nel modo in cui sceglie di evolversi la società umana, e il suo orrore più grande in quello che dall'umanità si libera, - addio consuetudini, tradizioni, cultura, speranza. Puro istinto. Cosa abbiamo dentro? Cosa ci stiamo nascondendo gli uni con gli altri, cosa stiamo nascondendo sotto il tappeto, anche se poi quello stesso tappeto è sollevato ogni volta che guardiamo il telegiornale?
E dunque, arriviamo a La carne di Cristò – autore di cui avevo letto ed entusiasticamente recensito Restiamo così quando ve ne andate – edito da Intermezzi nel lontano 2015, che per un po' è stato un discreto caso editoriale. Io almeno ricordo che se ne era parlicchiato parecchio per un certo periodo.
Dicevo all'inizio che non subisco il fascino dello zombie, perché per forza di cose lo zombie è privo di fascino narrativo. Dunque una buona storia sugli zombie dev'essere un'ottima storia dell'umanità, no?
Appunto, ecco La carne. Nella copia che mi ha amorevolmente prestato Irene circa due anni fa, insieme a Moby Dick e altri racconti brevi.
Prestarmi libri è pericoloso, – ritornano, ma ci mettono un sacco.

Siamo in Italia, più o meno in questo periodo storico. Solo che sembra che la società sia rimasta a quella che era decenni fa; niente smartphone, niente social network, niente discussioni sulle macchine ibride etc. La tecnologia si è fermata, il mondo ha deciso che non aveva senso cercare di evolversi, andare avanti. La condanna sull'umanità è sicura, perché da settantadue anni le persone hanno iniziato di punto in bianco a trasformarsi in zombie.
Ora, qui lo zombie non è feroce né violento, anzi. Lo zombie è un guscio vuoto, sradicato per intero della persona. Lo zombie è un corpo che non muore, che non corre, che vuole solo mangiare ma manca perfino della motivazione per procacciarsi il cibo. Le città si sono fornite di magazzini che distribuiscono carne a infinite file di disgraziati che non fanno altro che stare in fila, mangiare, rimettersi in fila. Tutti conoscono qualcuno a cui è successo, i più sfortunati hanno perso così tutta la famiglia. Dopo un anno dalla scomparsa di una persona, la si dà automaticamente per morta, e la famiglia può aprire il testamento.
In La carne, le persone attendono pazientemente di morire, ed è tutto grigio, tutto spento. Senza speranza.
Il protagonista e narratore è un ottantenne senza nome, che ci parla delle sue giornate vuote, accuratamente scandite da una serie di gesti privi di significato. Il fumo delle sigarette, il cinema porno, lo studio della “collezione”. Le visite programmate del quasi-nipote Giulio e della badante che lo aiuta a lavarsi, Monica. I rapporti che li legano, le considerazioni del protagonista, il modo in cui osserva il mondo intorno ritirandosi in se stesso come la risacca.
In La carne il protagonista cerca di spiegarsi cosa sia successo, di dare un senso alla sua disgrazia. Ci parla del mondo com'era “quando aveva otto anni” e tutto era normale e nessuno era ridotto a carogna ambulante e le cose cambiavano, del perché il suo tempo si è fermato, del punto esatto dello spazio e del tempo che ha scatenato il suo vivere di chiusura e ossessioni. Lo fa attraverso i ricordi, gli spunti, gli aneddoti, le allusioni. Alla fine ci è tutto chiaro, anche grazie al disperato finale meta-testuale, chiaro e comprensibile. Il protagonista, Giulio, Monica.
Nessuno ci dice nulla su come sia iniziata con gli zombie, da dove vengano, se si tratti di un virus o che altro. Nessuno lo sa, e a nessuno importa. Non al lettore, almeno.
Il punto è un altro.