Purity, di Jonathan Franzen


Purity di Jonathan Franzen, edito da Einaudi – ovviamente – nel 2016, tradotto da Silvia Pareschi. Di Franzen avevo letto soltanto Le correzioni diversi anni fa e mi era piaciuto parecchio. È uno di quegli autori di cui sai che prima o poi finirai per leggere tutto, e allora perché affrettarsi? È arrivato giusto dopo la delusione di Cani neri di Ian McEwan, in queste settimane prive di internet e con le pile di libri sugli scaffali che si assottigliano da fare male. Non sapevo che leggere, un paio di giorni fa, e fortunatamente a mio padre andava di accompagnarmi nella biblioteca del paese, aperta nonostante il sito della provincia la annunciasse chiusa. Mi sono riempita le braccia di libri – solo quattro in prestito, gli altri trafugati dagli scatoloni del bookcrossing – e sono tornata a casa sentendomi salva, con le giornate piene di parole che avessi voglia di ascoltare, e solo pochi giorni per leggerle, perché le lezioni cominciano oggi e le mie vacanze volgono al termine.
Dunque, Purity. È un romanzo pieno, che si dirama fino all’eccesso in una rete di relazioni internazionali che… non so, la grandezza della situazione mi è sembrata forzata, eccessiva. C’era davvero bisogno di tirare in mezzo Snowden, WikiLeaks, la Germania dell’Est e fondi fiduciari miliardari, per raccontare una storia fatta soprattutto di instabilità, sfiducia e rapporti disfunzionali con le proprie madri? Perché volendo spolpare tutto fino all’osso, è a questo che si riduce il romanzo. All’incapacità umana di accettare e dare amore, alle magagne che ci si porta dietro fino alla fine, a come le persone si avvelenano a vicenda, volenti o nolenti, ai colpi di reni, a quel briciolo di speranza che ci convince a mettere un piede davanti all’altro. Cose così.
Sia chiaro, io Purity l’ho adorato; l’ho trovato onesto, crudo, sottile nel dire ciò che i personaggi pensano, lasciandoti intendere quanto si sbaglino nella conoscenza di se stessi e degli altri. Sono così sinceramente tarlati che mi hanno ricordato Elizabeth Jane Howard o Elena Ferrante, niente meno. Eppure, per quanto l’abbia trovato un romanzo riuscitissimo, profondo e pure avvincente, continuo a pensare che non ci fosse bisogno di vicende tanto complesse, se tanto il punto era la fallacia dei rapporti umani. Ma tutta la questione internazionale, di giornalismo e spionaggio, quella immagino dipenda dall’antipatia che Franzen porta alla finta liberalità dell’internet, dell’uomo della strada che si sostituisce al reporter etc. Era necessario? Immagino di sì, se era quello che voleva Franzen.
Dunque, la trama, – che non sarebbe una brutta idea accennarla dopo migliaia e migliaia di caratteri. Tutto inizia da Purity, una ragazza instabile, che sparge odore di disperazione; molto carina, povera, con un lavoretto che detesta in una specie di call-center. Ha una madre ossessiva con cui ha un rapporto morboso e che la chiama micetta, non ha idea di chi sia suo padre, l’università le ha lasciato un debito di 130.000 dollari. Vive da squatter, è innamorata di un coinquilino più grande e sposato. È come se avesse scritto “daddy issues” sulla fronte, e le impossibile interpretare le sue relazioni con gli uomini se non dal punto di vista sessuale, proiettando su di loro il desiderio di essere desiderata.
Purity – che d’ora in avanti chiamerò Pip, perché è così che si presenta – vuole scoprire chi è suo padre, e potrebbe giungere a scoprirlo grazie a uno stage al Sunlight Project, una specie di WikiLeaks moralmente ineccepibile. E qui la storia di Pip si incrocia con quella del fondatore, Andreas Wolf, ultra-cinquantenne esule dalla Germania dell’Est. Ma non basta Andreas, la trama si allarga ancora ad annettere altri personaggi con un passato che li riavvicina al nucleo, dei quali sapremo tutto, dai quali sapremo ancora di più.
Se un personaggio risulta importante per Pip, Franzen ce lo racconta nei particolari. Ci parla di lui/lei, riempie pagine e pagine della sua vita, dei suoi momenti più importanti, fa in modo che lo conosciamo a fondo. Sembra vitale, ai fini del romanzo, che comprendiamo ogni singolo punto di vista, anche il più abietto, anche quello che può sembrarci secondario. Purity è un discreto mattone, supera le 600 pagine, ma non è stato snellito di centinaia di cartelle senza le quali sarebbe risultato certamente più fluido e scorrevole. Magari può sembrare una critica, messa così, ma sono contenta che Franzen sia rimasto fedele al romanzo che aveva in mente, anche a scapito di una maggiore leggibilità. Anche se chissà quanto avrà tagliato, prima di lasciare che il romanzo andasse in stampa.
Al centro, come dicevo all’inizio, si trovano temi fondamentali; il rapporto uomo-donna, tra madre e figlio, la concezione della propria verità, la verità e la propria verità. I personaggi sono quelli che sono; deboli, fallati, spesso disfunzionali. Forse, se li studiassi fino in fondo e mi guardassi intorno, troverei analogie che mi sfuggono, archetipi che ho tralasciato.
Resta il fatto, e non so se si è capito, che Purity è un gran romanzo, e che leggerlo per me è stato parecchio importante. Mi è arrivato nel momento più giusto, nel momento in cui ha potuto darmi di più, facendomi più male. Purity scava. Non resta in superficie.