La
lettura di questo libro è stata un po' travagliata. Ho iniziato a
leggerlo il giorno stesso in cui mi è arrivato – grazie, Fazi! -
ma l'ho dimenticato molto presto a casa degli amici da cui vado a
studiare. Il tempo di recuperarlo e ne avevo già iniziato un altro.
Poi l'ho dimenticato a casa di mia madre e così via. Mesi e mesi per
poche centinaia di pagine, mannaggia.
Dunque,
L'ultima estate di Cesarina Vighy, uscito per Fazi
sul finire dell'anno scorso.
Prima
di tutto, contesto. Chi è Cesarina?
Cesarina
è nata nel 1963 a Venezia, ha studiato, fatto l'attrice teatrale, si
è sposata, ha lavorato per il Ministero per i beni e le attività
culturali, ha scritto questo libro. Intorno ai settant'anni ha
contratto una malattia che pare quanto più vicino all'inferno, la
SLA, e che si è intrecciata coi suoi scritti. Con questo stesso
libro ha vinto il Campiello nel 2009 ed è stata nella cinquina dello
Strega.
Questa
particolare edizione contiene sia il romanzo L'ultima estate che
altri scritti, tra cui un po' di poesie: lo ammetto, io non riesco ad
amare la poesia, quindi non la conto proprio. Non è la poesia, sono
io. È che mi pare che il poeta sia quello che vuole raccontarsi
qualcosa da solo, piuttosto che mettermene a parte. Che parliamo a
fare, se ti muovi per analogie e non ti lasci avvicinare? Ma poi sono
parziale, che ci sono Neruda e Montale che delle mie recriminazioni
se ne infischiano.
L'ultima
estate è un romanzo autobiografico; Cesarina vive già all'interno
della sua malattia, che è diventata una lente attraverso la quale
ripercorre la sua vita, con buchi, strappi e attese. Parla della
madre, del padre, di come si siano incontrati. Pezzi di famiglia che
non ha mai visto né conosciuto, lontanissimi. La sua educazione, la
sua gioventù a Roma, il suo presente. Visite coi dottori, scambi con
ex-colleghi, considerazioni.
Sarà
strano da dire, ma non sono riuscita a leggere Cesarina se non
mettendola a paragone con mio nonno.
Sia
chiaro, mio nonno era un figo. Se n'è andato meno di un anno fa,
così come voleva – nella bara in tuta, niente fiori né funerale e
via così – e la sua voce continua a spuntare ogni tanto, a
lamentarsi di tutto ciò che non è riuscito a capire in vita, perché
non ha importanza il cervello che ti ritrovi, a volte gli anni ti
piazzano a una distanza dalle cose che non riesci a recuperare.
Ecco,
devo ammettere che io questa distanza con Cesarina l'ho sentita. Come
se vivesse nel mondo contemporaneo senza davvero capirlo, scegliendo
di osservarlo attraverso la lente del “ai miei tempi”. Un
giudizio sottile e costante da cui non è riuscita, o non ha voluto,
distaccarsi. O forse un'impressione dalla quale non sono riuscita a
liberarmi io, chissà.
Non
è facile parlare di L'ultima estate; è un'autobiografia, e non è
facile mettersi a chiacchierare di quello che sarebbe stato
interessante leggere rispetto a quanto si potesse tranquillamente
tralasciare. Avrei voluto leggere dell'esperienza teatrale di
Cesarina, della relazione col marito e con la figlia, del suo lavoro
per il Ministero. Ma L'ultima estate è forse più un diario a
ritroso, e il filtro degli argomenti pare stare tutto nel presente
dell'autrice, in ciò che ha ritenuto importante o divertente nel
momento stesso in cui stava scrivendo. C'è qualcosa di quasi non
ragionato in questo libro, e non so se sono stata in grado di
apprezzarlo fino in fondo.
Forse
il punto è che Cesarina è una persona, e sto leggendo lei e non un
libro. È una lettura intima, anche troppo. Viene quasi da chiedere a
Cesarina di lasciarti andare per un attimo, per recuperare una
prospettiva propria.
Non
so dare risposte perché manco delle domande. D'altronde, continuando
a farmi macerare il libro dentro, rischio di non arrivare mai
comunque a digerirlo del tutto, e anzi a spegnere quello che me ne
rimane dentro di vivo.
È
stata una lettura strana, altalenante. Mi sono sentita Cesarina, e
allo stesso tempo l'ho sentita distante.