Appunti dall'intervista a A. J.Raffles (e al suo fedele aiutante) - Raffles Caccia al Ladro Blogtour
Trovo
si renda necessario un brevissimo prologo a presentare il post di
oggi. Prima di tutto è il primo di un blogtour dedicato all'ultima
uscita della casa editrice CasaSirio, Raffles – Caccia al ladro di
E. W. Hornung, ma questo si sarà già capito quantomeno
dall'immagine sotto. Raffles è un ladro gentiluomo, una figura
astuta e affascinante raccontata dal suo fedele aiutante, Bunny; il
primo volume delle loro avventure è già stato pubblicato l'anno
scorso dalla stessa casa editrice, cui sarò eternamente grata per
aver portato in Italia tanta meraviglia che altrimenti difficilmente
avremmo avuto la gioia di scoprire. Del primo volume, dicevo, ho già
chiacchierato entusiasticamente qui.
Ora,
facciamola breve, o almeno proviamoci. Non è esattamente il mio
forte. Questo mio racconto apre un blogtour, e da dove si siano
pescati la fiducia per affidarmi cotanta responsabilità resta per me
un mistero insondabile. In questo racconto Agata Vivaldi, giornalista
letteraria, intervista i due protagonisti delle vicende di cui
narravo poc'anzi, Raffles e Bunny. Agata abita un mondo che ho
iniziato a immaginare qualche mese fa, in cui esiste il fenomeno
della bibliogenesi, ovvero l'incarnazione nella realtà di personaggi
letterari. Ho spiegato il fenomeno qui, se voleste approfondirlo, e
nella pagina dei racconti su in alto si trovano le interviste ad
altri personaggi – Victor Frankenstein (assolutamente
tralasciabile), Lord Ruthven e Lady Catherine de Bourgh (già
meglio).
Ho
l'ardire di augurarvi una lettura il meno soporifera possibile.
E
se proprio doveste addormentarvi, ecco, vi prego di credermi quando
dico che i racconti di Hornung sono di un'inenarrabile figaggine.
Punto.
Il
mio capo è un tirchio e un idiota, e questo lo sapevo già da tempo,
non è che mi sia giunta dal nulla un'illuminazione al sapore di
tradimento. Il mio problema, al momento, è che sarò io a trovarmi
di fronte ai volti offesi da una tirchieria dalla quale vorrei
chiamarmi maestosamente fuori, ma delle cui ragioni dovrò tacere
perché per deontologia professionale, non è dato di parlare male
del redattore-capo con gli oggetti delle tue interviste.
È
vero, come dice il capo, che Arthur J. Raffles e Harry “Bunny”
Manders sono assai meno celebri di coloro che avrei dovuto
intervistare oggi – le sorelle March, che hanno disdetto il nostro
incontro dopo aver letto il resoconto, a loro dire impietoso, della
mia visita a casa Frankenstein – ma non per questo mi pare il caso
di trattarli come personaggi di serie B nel panorama letterario.
Certo,
un po' forse lo sono. Di certo si tratta di personaggi derivati,
ispirati ai ben più famosi Sherlock e Watson – coi quali intendo
prima o poi ottenere un incontro, dannazione – fino a sfiorare il
plagio, quantomeno per le dinamiche relazionali che intercorrono tra
loro. Chissà perché la letteratura ha scelto di trattenere vivi
nella memoria collettiva i “consulting detective” e non i due
ladri gentiluomini, questo non riesco a spiegarmelo. Mi sono
adeguatamente preparata per l'intervista rileggendo i racconti di E.
W. Hornung, cognato di Arthur Conan Doyle e suo intimo amico,
nonostante le divergenze etiche che il buon vecchio Doyle non mancava
di esprimere; i racconti delle avventure di Raffles e Bunny mi sono
risultati invero assai più gradevoli delle macchinazioni di
Sherlock, e questo non mancherò di farlo notare nell'articolo.
Magari riuscirò a smuovere l'ego del signor Holmes, spingendolo a
contattarmi.
Ad
ogni modo, la loro fama decisamente più modesta rispetto a quella
che possono vantare le sorelle March, non mi pare un buon motivo per
disdire la prenotazione di un albergo di lusso e costringermi a
soggiornare nello scantinato di un albergo londinese che le stelle le
vede soltanto se il cielo è sereno, con la moquette logora dai
colori assurdamente squillanti, la vernice scrostata dal muro e
l'area comune – in cui avrà luogo l'intervista – che odora di
cavolo. E questo è il suo lato migliore, mi viene da dire osservando
le scomode sedie di legno e i tavolini traballanti. Almeno è vuota,
mi dico. Intervistare due personaggi letterari richiede almeno un po'
di riservatezza.
Ho
lasciato detto in portineria che li facciano accomodare qui non
appena saranno arrivati. Spero di vederli comparire presto, ma se ho
presente i gentiluomini vittoriani, è ben probabile che si facciano
attendere un po'. Nel frattempo scarabocchio sul mio quaderno degli
appunti, ripasso le domande, le date di uscita dei libri, i commenti
dei lettori; sarà il caso di chiedere della guerra anglo-boera cui
entrambi hanno partecipato? Dell'etica nazionalista che li ha mossi
quando la storia è stata impietosa rispetto alle azioni
dell'Inghilterra? E fin dove mi è dato di chiedere chiarimenti sul
loro rapporto, fonte di innumerevole illazioni – è vero, paiono
più una coppietta innamorata che due colleghi di crimine –
affinché non si alzino offesi dal tavolo, lasciandomi priva di un
tema cui attingere per la mia rubrica settimanale?
Tamburello
con le dita sul ripiano del tavolo, e continuo a mandare una sequela
di accidenti al mio capo; ma si possono invitare due gentiluomini
vittoriani in un posto del genere? Avranno pure visto di peggio, ma
diamine, devo proprio essere io a sbattergli in faccia che la
modestia della loro fama?
“Signorina?”
Un'inserviente
– una signora di mezza età della cui etnia non riesco ad
accertarmi – mi riscuote dalle mie irritazioni, picchiettandomi
sulla spalla con un'espressione di evidente imbarazzo.
“Sì?”
“I
suoi ospiti sono arrivati.”
“Ottimo.
Può dire loro di raggiungermi?”
La
donna scuote la testa arrossendo; poi estrae dalla tasca un foglietto
in cui vedo vergate poche righe in una grafia elegante.
“Egregia
giornalista, questa bettola è inadatta al vostro olfatto quanto al
nostro buongusto. Io e il mio esimio collega la preghiamo di volerci
raggiungere al Victoria's per procedere nel nostro incontro non
appena le sarà riportata la presente missiva.”
La
donna ha letto impappinandosi di tanto in tanto, e non saprei dire
chi delle due risulti più imbarazzata dal contenuto del messaggio.
“Mi
scusi. Grazie. Va bene. Mi perdoni. Vado subito.”
La
vergogna mi arroventa il viso mentre raccatto la mia roba e mi fiondo
in strada per raggiungere gli oggetti della mia intervista. Da un
lato vorrei sgridarli per la mancanza di tatto, dall'altro continuo a
voler uccidere il mio capo e chiunque abbia preso la malsana
decisione, chissà in quale obnubilato stato mentale, di fargli fare
carriera.
Il
Victoria's è a due passi dall'albergo; basta procedere per Earl's
Court, attraversare la strada un paio di volte e andare a destra ed
eccolo che compare con la sua insegna rossa. Mi pare venga citato
perfino nei racconti di Hornung, ma non ne sono sicura; potrebbe
anche essere il Bag'o'Nails, o il King's Head. Sono quei nomi che si
ripetono a profusione non appena metti il naso fuori dalla porta a
Londra.
Sono
appena le quattro di pomeriggio, e il pub è mezzo vuoto. L'atmosfera
è quella che è, e non sono sicura che sia preferibile a quella che
avremmo trovato nell'area comune dell'albergo. All'odore di cavolo si
sostituisce un vago profumo di birra e frittura. Saranno passate un
paio d'ore dal mio pranzo, ma inizio a sentire un vago languorino.
Individuo
immediatamente i miei ospiti; un tizio alto e magro, dalla chioma
grigio chiaro e gli zigomi pronunciati, che mi lancia un sorriso
pacato. È vestito in modo elegante ma non troppo; non pare debba
andare in ufficio né che debba cantare a un matrimonio, come capita
a molti personaggi vittoriani che si trovano a dover fare i conti con
la moda dei nostri tempi – e di rinunciare a camicia e cravatta
proprio non se la sentono – ma risalta anzi per la sua discrezione.
Una camicia candida, un golf scuro, pantaloni di sartoria – almeno
credo, non sono in grado di riconoscere un “buon taglio”, ma è
il modo in cui mi viene da descriverli, e questo vorrà pur dire
qualcosa – e una sciarpa di seta grigia appoggiata sul tavolo.
Accanto a lui una specie di ragazzino troppo cresciuto, un eterno
giovanotto, la cui età è tradita unicamente dalle rughe che gli
solcano i contorni delle labbra e la fronte; è espressivo, ha gli
occhi grandi e, ricordando la descrizione che viene fatta di Bunny
nei libri, meno male che ha deciso di tagliarsi i baffi.
Li
raggiungo in fretta, rischiando di inciampare sulla mia stessa
sciarpa.
“Salve”,
esalo “Sono desolata, deve esserci stata un'incomprensione
per...”
“La prego,” mi interrompe Raffles, alzando una mano “Non datevi pena.”
“La prego,” mi interrompe Raffles, alzando una mano “Non datevi pena.”
Si
interrompe per un attimo, e noto che Bunny mi osserva con uno sguardo
di curiosità un po' ostile.
“Vogliate
perdonarmi se non mi alzo per accogliervi, ma mi pare di aver
compreso che di questi tempi simili gesti di cavalleria non siano più
d'uso e non vorrei rischiare di mettervi in imbarazzo facendone
sfoggio.”
“Assolutamente.”
farfuglio, mettendomi a sedere.
Mi
presento brevemente, con la formula che mi sono studiata mentre li
attendevo, ma le frasi mi escono in un balbettio sconnesso. Da un
lato spero che il mio evidente imbarazzo li predisponga meglio nei
miei confronti – non è colpa mia se il mio capo è un idiota – e
dall'altro spero non mi prendano per una dilettante. Non è che io
non sia brava nel mio lavoro; solo che il mio è un lavoro da
svolgersi a contatto coi libri, non coi loro personaggi in carne e
ossa. La bibliogenesi ha reso la critica letteraria assai più
complessa – e interessante.
“Avete
già ordinato?” chiedo, dopo aver disposto il registratore sul
tavolo e aver aperto il blocco degli appunti di fronte.
“Ben
prima del vostro arrivo.” sorride Raffles.
Rispondo
con un sorriso ancora più ampio.
E
dire che preferisco le tue avventure a quelle di Sherlock Holmes,
fottuto snob.
“Non
voglio farvi perdere tempo, credo sarebbe meglio se iniziassimo
subito con l'intervista.”
“Nemmeno
noi intendiamo trattenerla, ovviamente.”, mi interrompe Raffles “Ma
saprà certamente che il mio amico qui è stato giornalista a sua
volta, e ha espresso grande curiosità per il vostro lavoro ai giorni
nostri. Spero vogliate rispondere alle sue domande.”
Se
mi venisse chiesto di interpretare correttamente l'espressione di
Bunny, risponderei senza dubbio che del lavoro del giornalista
moderno non gliene potrebbe fregare di meno. A quanto vedo Raffles
non ha ancora perso l'abitudine di lasciare il suo compare ignaro dei
suoi piani. Ma io conosco i suoi giochetti, e lui sa che li conosco,
che ho letto i suoi libri, e capirà bene che gabbarmi non sarà così
facile. Dove diavolo vuole arrivare?
“Non
intendo sottrarmi alle vostre domande.” rispondo, sporgendomi in
avanti. Ho studiato il linguaggio del corpo, vorrebbe sottintendere
disponibilità e collaborazione. A me pare più di avere un'aria da
rapace ma, ehi, ne so più io o il mio manuale di psicologia for
dummies?
“Ecco,
bene, sì” Bunny lancia un'occhiata furente a Raffles, che incrocia
le braccia serafico, “So che al giorno d'oggi usate molto i
computer e le videochiamate e... ecco, mi chiedevo, perché avete
voluto incontrarci di persona, quando avrebbe potuto intervistarci a
distanza? Non sarebbe stato più comodo? E più economico, visto che
a quanto mi è dato di capire, il lato pecuniario riveste una certa
importanza per il vostro giornale.”
Devo
darne atto a Bunny, si è saputo riprendere abbastanza in fretta
dalla sorpresa. La stilettata però poteva evitarsela; la voglia di
piantargli la penna nella giugulare mi fa sentire alquanto vicina a
Lord Ruthven.
“Certamente
un'intervista a distanza sarebbe stata più comoda e assai meno
costosa”, sorrido sull'ultima parte “ma anche meno personale. Non
so se abbiate letto le prime puntate della mia rubrica dedicata a voi
personaggi letterari, ma finora ho sempre cercato di ampliare la
semplice intervista verso un contesto più narrativo. E la narrazione
necessita di un'ambientazione, di un contesto, è fatta di piccoli
gesti. Se questa fosse una videochiamata non potrei descrivere il
modo in cui vi sedete, non potrei vedere chiaramente l'anello che il
signor Raffles indossa al mignolo - credo che compaia in uno dei
vostri racconti, nel volume Caccia al ladro, non è così? - e non
potrei saggiare la vostra capacità di interagire col mondo esterno.”
faccio una breve pausa, e mi offende non poco il fatto che Bunny
appaia sorpreso dalla serietà della mia risposta. 'Sto ragazzino.
“Spero di aver risposto in maniera esauriente.”
“Sì,
certo. Grazie.” borbotta Bunny.
“Non
trattenere i tuoi dubbi, mio lagomorfo amico. Sono tante le domande
con cui mi hai confidato di voler subissare la nostra
intervistatrice, la quale si è dimostrata tanto disponibile che
sarebbe quasi un insulto tacere le tue curiosità. Ti invito
apertamente a disfarti della tua timidezza, Bunny.”
A
giudicare dall'espressione di Bunny verrebbe da pensare che l'abbia
invitato a svitargli la testa dal collo, e per un attimo mi pare che
abbia la netta intenzione di spaccargli il naso con un pugno. Il che
sarebbe assai interessante da un punto di vista scientifico, potrei
osservare le proprietà visive del sangue di un personaggio
bibliogenerato, e magari potrei perfino raccogliere un campione da
far studiare in laboratorio. Ma Bunny è un gregario fedele e si
riaggiusta la giacca sulle spalle – troppo stretta, forse da donna,
perché Raffles non l'ha accompagnato a fare spese? - e torna a
rivolgermi la sua irritata attenzione.
Io
e Bunny finiamo incastrati in uno scomodo teatrino per un buon quarto
d'ora. Mi ritrovo a rispondere a domande sui miei studi, sulla storia
del mio giornale, sullo Strand, perfino sul tipo di inchiostro usato
nelle penne a sfera. Solo quando Bunny appare evidentemente stremato
dallo sforzo di crearsi dei dubbi improbabili su un argomento che lo
interessa quanto l'accoppiamento delle foche, Raffles decide di
essere stanco del giochino.
“Va
bene così, Bunny, capisco le tue curiosità, ma non puoi
monopolizzare così la conversazione. La signorina Agatha qui ha un
compito da svolgere, anche se è troppo educata per fartelo notare
apertamente.”
Ero
già pronta a raccogliere campioni di sangue e ossa, ma Bunny butta
fuori un sospiro incandescente e non dice nulla.
“Vi
prego, sentitevi libera di chiederci quello che vuole.”
Avverto
il peso della tensione scivolarmi via dalle spalle, e d'un tratto mi
trovo a risollevare la schiena; riesco perfino a ripescare il sorriso
professionale che sul mio volto si era cristallizzato in un ghigno di
morte.
“Prima
di tutto, visto che per la prima volta riesco a intervistare una
coppia di personaggi e non un singolo individuo, vorrei chiedervi di
presentarvi reciprocamente a me e ai lettori; chi è Raffles secondo
Bunny, e chi è Bunny secondo Raffles?”
I
due si lanciano un'occhiata spiazzata, e Bunny alza una mano a
grattarsi la tempia.
“Inizio
io,” esordisce Raffles, accavallando le gambe con eleganza “Bunny
è per Raffles un collega fidato, ovviamente, nei limiti della sua
comprensione per le mie opere. Non si tratta di un'anima dedita al
male e all'inganno – non che io stesso mi definisca in tal modo, ma
sono pronto a concedere innanzi alla giuria formata dai lettori che
la mia morale è ben più flessibile di quella che la nostra legge
vorrebbe forgiare – ma di una mente aperta e malleabile, laddove
sappia scorgere la possibilità di divertirsi e di correre un
rischio. Certamente,” e qui lancia un'occhiata all'amico che lo
osserva colpito “il denaro ha un ruolo più che rilevante in tutto
questo. Ma sarebbe criminale limitare al delitto ciò che facciamo.
Ma dicevo di Bunny, giusto. Potrei enumerarvi le mille ragioni per
cui lo considero un compagno fedele, un'ottima compagnia e un amico
impareggiabile; mi limito a dire, e qui concludo poiché la
sdolcinatezza non fa parte del mio personaggio, che non ci sarebbe
Raffles senza Bunny.”
Quest'ultimo
è rimasto immobile, e a vederlo pare sia rimasto vittima di un
incantesimo di pietrificazione mentre si apprestava a gettarsi
sull'amico. Ha il busto proteso in avanti, le spalle incurvate e una
mano alzata. Gli occhi sono piantati sul viso compassato di Raffles,
che nel frattempo ha preso a studiare la lista delle birre con
rinnovato interesse.
“Tocca
a te, Bunny.” lo incalza infine, “non vorrai fare attendere oltre
la nostra giornalista.”
“Ecco,
sì.” balbetta quello, riportando lo sguardo su di me, stavolta più
imbarazzato che infastidito dalla mia presenza “Quello che Raffles
rappresenta per me, ecco. Abbiamo studiato insieme, questo sì, lo
saprà già. E forse lo sapranno anche i vostri lettori, che anche se
non abbiamo raggiunto poi chissà quale fama, né aspiriamo a
raggiungerla, beninteso, le luci della ribalta non sono per i
ladri... cosa stavo...? Giusto, Raffles.” si interrompe, e nel
frattempo ci portano le nostre consumazioni, tre birre scure spillate
di fresco, la schiuma alta che rischia di debordare sul tavolo. Bunny
aspetta che il cameriere se ne sia andato prima di prendere la parola
“Credo che Raffles si sia dimenticato di dire una cosa importante,
mentre parlava di noi. Ha parlato di me, e questo è giusto perché
dopotutto è quello che ci avete chiesto di fare, parlare l'uno
dell'altro. Ma non ha poi tanto senso, no? Senza Raffles non esiste
Bunny, senza Bunny non esiste Raffles. Prima di essere amici, prima
di essere colleghi, siamo una famiglia.”
Scrolla
le spalle e si getta in gola un generoso sorso di birra.
“Beh,
è stato molto...” mi schiarisco la gola; Raffles non è il solo
allergico alle sdolcinatezze e onestamente questo sfoggio di affetto
mi ha spiazzata “commovente. Vi ringrazio per essere stati così
onesti e aperti. Ora vorrei chiedervi un punto di vista puramente
personale sul furto al giorno d'oggi; come trovate sia cambiato, lo
trovate più o meno complicato, soprattutto considerati i nuovi
metodi di allarme e monitoraggio?”
Raffles
scuote la testa, come se fosse allo stesso tempo deluso e seccato
dalla domanda.
“È
cambiato molto, ma non è cambiato nulla di davvero importante. Non
c'è nulla di materiale che non sia potenzialmente rubabile.
Qualsiasi sistema di allarme è aggirabile. Quantomeno, laddove sia
presente un fattore umano di rischio. Il fattore umano è sempre un
anello debole.”
“Prima
avete usato il termine morale. Posso chiedervi di...?”
Raffles
lancia un'occhiata al suo orologio da polso, si cimenta in
un'espressione di sorpresa e orrore di una falsità tanto evidente
che neanche un insulto diretto sarebbe stato altrettanto offensivo,
quindi alza una mano a interrompermi.
“Sono
desolato di dovervi avvertire che il mio orologio, qui, pare essersi
fermato più di mezzora fa. Il quadrante che vedo da qui, esattamente
dietro le vostre spalle, mi dice che sono quasi le 17 e io e il mio
collega qui siamo invitati a presenziare alla prima di uno spettacolo
tra non più di quaranta minuti. Abbiamo tempo ancora, se sarete
breve, per una domanda, una soltanto. Di più, spero che potrete
capire e perdonarmi, non possiamo concedervi. Dico bene, vecchio
mio?”
Bunny
lo guarda truce, ancora una volta all'oscuro dei piani dell'amico.
“Benissimo,
Raffles. Lo spettacolo. La prima.”
“In
questo caso...” scorro velocemente la lista di domande che mi ero
appuntata, due pagine di sforzi intellettuali buttati al vento “Ora,
sarete bene a conoscenza dell'identità del vostro creatore.”
Entrambi
annuiscono e noto che, mentre Raffles continua a guardarmi serafico,
Bunny ha incrociato le braccia al petto; mi appunto mentalmente
questa reazione, per sottolinearla quando dovrò scrivere l'articolo.
I personaggi sono soliti mostrare una certa reticenza quando si fa
riferimento alla loro natura di derivazione letteraria. Devo
ricordarmi di dare un'occhiata alla bibliografia della mia vecchia
tesi di laurea, in cui citavo diversi studi sull'argomento, magari
riuscirò a riempire il vuoto lasciato dalla partenza anticipata di
questi dannati cialtroni.
“E.
W. Hornung. Amico di Arthur Conan Doyle, del quale aveva sposato una
sorella.” risponde Raffles, “Trovo assai plausibile che il mio
nome venga proprio da quell'Arthur.”
“Immagino
sarete d'accordo con me nell'osservare che voi due apparite come
un'immagine speculare di Sherlock Holmes e del dottor Watson. Il
geniale detective e il geniale ladro. Due aiutanti fedeli. Londra,
con tutte le sue sfaccettature. Eppure dovrete convenire con me che
la notorietà di Holmes è infinitamente superiore alla vostra, a
fronte di una leggibilità a mio dire minore. Vorrei, se la cosa non
vi infastidisce, che mi parlaste del rapporto tra le vostre
rispettive opere.”
Lo
ammetto, va bene. La scelta della domanda non è affatto casuale. Era
l'unica in tutto il taccuino che mi permetteva di lanciare loro una
meritatissima stilettata, e dire che inizialmente l'avevo inserita
tra parentesi. Al diavolo il riserbo, se potessi li costringerei a
pagarmi la birra.
“Sarebbe
interessante, invero, incontrarci con Sherlock Holmes e il suo
collega. Ha ragione nell'affermare che siamo speculari; forse
potremmo perfino definirli le nostre nemesi, e non le nascondo che ho
immaginato varie volte di mettere a punto un colpo tale da
costringerli a intervenire. Tuttavia, non abbiamo poi così tanto in
comune. La narrazione di Doyle è tecnica, i piani proposti sono
macchinosi, gli indizi sono nascosti fino all'ultimo sia al dottore
che al lettore, in modo da facilitare lo stupore finale. Trovo
personalmente che sia un metodo alquanto pigro di scrivere un giallo,
se mi permette. Io e Bunny, al contrario, siamo piuttosto espliciti
nelle nostre imprese, il che ci rende più credibili. E fallibili,
per quanto mi addolori ammetterlo. Certamente il caro Hornung ha
preso dal celebre cognato la struttura binaria della nostra
organizzazione, chi potrebbe negarlo? Ma abitavano entrambi la stessa
Londra vittoriana, c'è da stupirsi se l'ambientazione in cui ci
muoviamo è la stessa? Se l'atmosfera di nebbia e mistero non cambia?
Forse che tutti i libri di vampiri narrano la stessa storia ancora e
ancora?”
La
tentazione di intervenire puntigliosamente sull'ultima osservazione
mi si appoggia contro le labbra, ma la trattengo. Non è tempo di
battibeccare.
“Dunque
non...?”
“Signorina,
come le ho spiegato poc'anzi colmo di imbarazzo, è tempo per me e
Bunny di andare. Vogliate scusare la nostra scortesia, e vi prego di
spedirci una copia della rivista al nostro indirizzo.”
Si
alzano, mi omaggiano di un inchino velocissimo e, nel caso di Bunny,
palesemente svogliato. Escono dalla porta senza fare il minimo gesto
di pagare, e resto sola col mio taccuino mezzo vuoto e il
registratore ancora in funzione. Lo spengo con un sospiro, e inizio a
domandarmi come riempire il vuoto delle domande. Se dovessi riempirlo
con una descrizione sincera e irritata dell'intervista, rischio di
scoraggiare i futuri incontri con altri personaggi. D'altronde non
posso neanche limitarmi ai pochi quesiti di introduzione che questi
due dannati mi hanno lasciato.
Bevo
un sorso di birra – sono fuggiti così velocemente che è ancora
fresca – e mi lascio andare all'indietro sulla sedia. Sto meditando
sulla possibilità di ordinare un piatto di fish and chips – da
mettere in conto al capo, ovviamente – quando il cameriere mi
raggiunge per porgermi un biglietto.
“Innanzitutto,
signorina Vivaldi, vogliamo credere che non se la prenderà per il
piccolo scherzo che io e il mio amico abbiamo voluto farle. Come
giornalista sarà abituata ad avere a che fare con gente d'ogni
risma, e se ben conosciamo il non-morto con cui ha avuto a che fare
non più di due settimane fa, siamo fiduciosi che saprà riprendersi
anche da questo piccolo vezzo.
Lei
ha appena intervistato il signor Michal McGruder e il signor Phil
Hughes, due attori che ci siamo presi la briga di istruire a dovere
perché risultassero in grado di rispondere a qualsivoglia domanda
sulle nostre vite. Sono ottimi improvvisatori, quindi confidiamo che
non l'abbiano fatta sospettare di nulla. È stato divertente vederla
barcamenarsi tra il fastidio e l'imbarazzo quando le ho portato
personalmente il messaggio scritto di mio pugno; avrebbe dovuto
ricordarsi, signorina, del ruolo preponderante che i travestimenti
hanno all'interno dei nostri piani.
Come
già avrà avuto modo di capire, ho inteso di sottrarre qualcosa
dalla sua camera. Non le dirò cosa, ovviamente, e dubito che lei
stessa riuscirà a capirlo. Mi sono premurato di spargere finti
indizi per tutta la stanza, e di nascondere le mie tracce con
consueta perizia. È stato divertente giocare con lei; forse avremo
occasione di incontrarci nuovamente, in occasione di una vera
intervista.
Voglio
pregarla di porgere la mia più totale disistima a chi ha avuto
l'ardire di scegliere un albergo tanto infimo.
Bunny
è sinceramente imbarazzato per l'accaduto; egli è un gentiluomo
d'altra caratura rispetto alla mia.
Alla
prossima,
A.
J. Raffles”
Immagino
che dovrei avere una reazione offesa, forse violenta. Voglio dire, la
mia fiducia è stata tradita, sono stata apertamente gabbata e infine
derisa con un biglietto che scimmiotta perfino un tono dispiaciuto.
Ho intervistato due attori misconosciuti, ai quali dovrò pure
offrire la consumazione del pub – perché non è detto che il mio
capo mi lascerà inserire i signori McGruder e Hughes nella nota
spese – e... beh, diciamocelo.
Ho
un sacco di materiale per il mio articolo.
Questa birra è dannatamente buona.