Tra
gli aspetti che preferisco di Torino – e sono tanti, davvero – il
primo è forse la spropositata quantità di bancarelle di libri
usati; quasi tutti i giorni passo a controllare
le bancarelle di Via Po, e ogni tanto il padiglione in via Cernaia.
Passo spesso davanti a librerie dell'usato vere e proprie, specie
quando vado verso il Valentino, ma ancora non mi sono arrischiata a
entrare. Sto riempiendo la libreria nella mia stanza abbastanza
velocemente, grazie.
Dicevo,
bancarelle di libri usati. In cui si trovano un sacco di libri
interessanterrimi, semi-nuovi o addirittura nuovi, per pochissimi
euro. Come quello di cui m'accingo a chiacchierare oggi, Il libro
delle mie vite di Aleksandar Hemon, edito da Einaudi nel 2013 nella
traduzione di Maurizia Balmelli.
Ora,
questo libro non è stato un'ispirazione. Certamente ha aiutato che
la bancarella presentasse il convincentissimo prezzo di tre euro, ma
probabilmente l'avrei preso anche per qualcosa di più. È un libro
che ho visto consigliato, riconsigliato e straconsigliato da una
persona per cui provo un infinito rispetto letterario. Quindi sì,
pur non sapendone granché – forse non mi sono mai attardata a
leggere le ragioni dietro al consiglio, vai a sapere – ne ho
saggiamente rimembrato titolo e copertina e me lo sono portato via.
Cosa
di cui sono immensamente lieta.
Purtroppo
non mi è dato di chiacchierarne approfonditamente, perché al
momento non ce l'ho sottomano. Dovrò andare un po' a tentoni, e non
è che la mia memoria sia delle più resistenti, tutt'altro. Inizierò
citando quasi alla lettera la pagina dedicata al libro sul sito di
Einaudi, in cui viene spiegato che Hemon ha composto questo libro
autobiografico nell'arco di undici anni, unendo insieme quindici
tasselli-racconti della sua vita.
Aleksandar
Hemon è bosniaco e viene da Sarajevo. Lungo questo libro, tutto
sommato davvero breve, racconta della sua infanzia, della sua
famiglia, della loro tavola sempre piena di gente. Racconta dei cani,
della sorella minore cui ha scoperto di voler bene mentre la stava
strangolando nella culla. Racconta poi della sua adolescenza, dei
gruppi formati dai giovani dei quartieri, e poi della scoperta della
musica, della voglia di essere ribelli autodeterminati, di una festa
a tema che si trasforma in scandalo e in qualcosa di peggio; racconta
di un periodo di cultura e indipendenza dalla cultura, di una voglia
matta di affermare qualcosa, della sua insopportabile prosopopea
giovanile.
E
poi arriva alla parte cruda della sua vita. Quella che non ha vissuto
del tutto, ma che racconta attraverso gli occhi dei suoi amici e
della sua famiglia. La guerra nei balcani. Il conflitto tra serbi e
croati, con tutto il suo orrore e la sua assurdità.
Di
quella guerra so poco e niente, davvero. E questo un po' per
ignoranza personale – in tutti questi anni, possibile che non abbia
mai deciso di studiare una questione così tremenda e così vicina? -
e un po' perché, diciamocelo, il sistema educativo italiano ha un
modo tutto suo di omettere proprio quelle informazioni che potrebbero
aiutarti a capire il presente. In quel periodo però esistevo, andavo
alle elementari e qualcosa già mi arrivava. Poco, però. Dell'intero
conflitto ho solo due ricordi: un concorso di poesia il cui primo
classificato aveva vinto per avere scritto della guerra – giuro che
pure allora il componimento mi pareva stilisticamente urfido e
piacione – e suora Armida, il mio terrore dei tempi dell'asilo che
è andata in Kosovo come missionaria. Voi suora Armida non l'avete
mai conosciuta, ma ai tempi le ho augurato tutto il male possibile.
Mi spiaceva per il Kosovo, però.
E
poi basta. Del conflitto non sapevo altro. Non so altro. Mi
capita ogni tanto di chiedere a mia madre cosa sia accaduto in tale o
talaltra circostanza storica, quando dovevo ancora nascere o ero
troppo piccola per capire. A volte ricevo risposte esaurienti, più
spesso finisco per dimenticarmele, perché non riesco a registrare
bene le informazioni che non leggo. Non so dove voglio andare a
parare; forse sto solo cercando di sottolineare la rilevanza
storico-informativa di questo libro.
Che
però non è un libro sulla guerra; è un libro sulla vita di Hemon,
di cui la guerra ha fatto parte. Ma poi parla dell'emigrazione,
dell'America – di Chicago – e di calcio. Parla un po' di tutto, e
lo fa con tono sincero, non proprio leggero, ma fluido, scorrevole.
È
una chiacchierata a distanza, una lettura che ho grandemente
apprezzato e che, va da sé, consiglio assai.