Dunque, vediamo. Inizio
col dire che c'è sempre un imbarazzo a doppio taglio quando si parla di libri scritti da persone con cui fai due
volentieri due chiacchiere, che hai in simpatia e che ti hanno mandato a sorpresa il loro ultimo libro.
(Ho già detto grazie? Grazie.)
Tale condizione non mi è sconosciuta, tutt'altro, l'ho vissuta una buona manciata di volte, ma non penso mi sia già capitato di descriverla qui.
(Ho già detto grazie? Grazie.)
Tale condizione non mi è sconosciuta, tutt'altro, l'ho vissuta una buona manciata di volte, ma non penso mi sia già capitato di descriverla qui.
Allora, c'è l'imbarazzo
tentennante del “e se poi non mi piace?”, che pure quando vai
sul sicuro un po' ristagna in secondo piano, perché galateo e
sensibilità imporrebbero vigliaccamente di glissare con gentilezza,
tecnica che non padroneggio affatto - e il cui uso trovo onestamente alquanto insultante. Poi c'è l'imbarazzo a
trabocchetto, quello del “e se mi piace?”, perché se si
parla troppo bene di un libro scritto da qualcuno che conosci, apriti
cielo, "la blogosfera è tutta malvivenza e segnalazioni interessate".
Con Il brevetto del
geco di Tiziano Scarpa, recentemente edito da Einaudi,
mi trovo un po' nella seconda condizione. Perché mi è piaciuto un
sacco, e a più livelli, ben oltre la semplicità di una lettura
piacevole. Un abbozzo di trama e poi, con calma, spiego perché.
Si seguono, a capitoli
alternati, le linee narrative di due personaggi che parrebbero non
avere nulla in comune. Federico Morpio, un artista fallito che si
approccia alla mezza età, immerso nei gretti pensieri delle
ristrettezze economiche e delle scelte sbagliate. E Adele Cassetti,
ventinovenne, che mi immagino avvolta in golfini infeltriti e colori
spenti, che decide grazie all'intercessione mistica di un geco
intrappolato in una pentola di teflon – ci sono delle motivazioni
profonde che non sto a spiegare – di convertirsi al cristianesimo,
e inizia poco a poco a frequentare una particolare chiesa milanese.
Le loro vite vanno avanti, partendo da punti tanto distanti che
sembrano non doversi incontrare mai; e dopotutto non è che
l'incontro sia davvero un incontro, ad essere rilevante è un
qualcosa che si dispiega dietro l'incontro.
Uno dei motivi per cui ho
adorato Il brevetto del geco è la narrazione. Non tanto lo stile –
che è fluido e insieme pregno, ma non è questo il punto – quanto
il fatto che la narrazione sia affidata alle parole stesse. Il
linguaggio, in questo libro, è senziente. Si distacca talvolta dai
personaggi per raccontare l'ambiente circostante, motivando la
propria scelta; le parole raccontano la propria esperienza in quanto
tali, e i personaggi ne sono del tutto all'oscuro. A questo si
aggiunge un'istanza senziente impalpabile che, racchiusa tra
parentesi quadre, lamenta la mancanza di un corpo proprio, di
un'esistenza che si possa definire tale. Non dirò se l'istanza
acquisisca una spiegazione o meno, ma sottolineo il mio apprezzamento
per la sua presenza.
Un ulteriore aspetto che
ho assai gradito nel romanzo è la dignità con cui viene raccontata
la scelta di conversione di Adele, così come del suo “compagno di
avventure”, un aspirante convertito incontrato in chiesa. Nel mondo
degli intellettuali la religione è malvista, specie se vissuta in
modo mistico e pervasivo. Adele ha le sue ragioni, profonde, che la
spingono in direzione del divino, e questo è raccontato, chiedo
venia per la ripetizione, accordandole dignità. Provo una certa
insofferenza per la totalizzante intoccabilità che ha recentemente
acquisito il concetto di “scienza”; non che non la apprezzi come
forma d'arte a sé o per la sua indubbia utilità, ci mancherebbe. Ma
ridurre l'intera esperienza umana a “scienza” mi pare riduttivo;
come quelli che riducono emozioni e sentimenti a reazioni chimiche,
per poi continuare a vivere seguendo il risultato di quelle stesse
reazioni, un sentire che hanno già bollato come falso. Personalmente
mi sono staccata da tutto ciò che si può definire religione da
tanto di quel tempo ho solo un vago ricordo di cosa si provi a
credere in qualcosa; però ricordo la calma, la serenità interiore.
E credo tuttora che sia un ottimo scambio, la fede per un po' di
pace.
Un'altra cosa che ho
gradito molto è il continuo discorso sull'arte portato avanti da
Morpio. Su cosa sia l'arte, sulla dedizione degli artisti, sul
rapporto tra arte e mecenatismo. Ho potuto apprezzare giusto ieri
pomeriggio, poche ore dopo aver chiuso Il brevetto del geco, uno
sprazzo di quel mondo strano, frequentato da una massa troppo
profumata di gente bene e di individui ostentatamente vestiti male,
un sacco di champagne e una furia nei confronti del buffet che non
sono riuscita a procacciarmi neanche una pizzetta.
(La mostra in sé era una
cosa meravigliosa, cercate Lorenzo Alessandri. Mi ringrazierete.)
Il finale è una
questione curiosa; viene raccontato brevemente nella prefazione, e
per tutto il libro pare non avere nulla a che fare con la storia che
si sta leggendo. Giunge nel finale, in una forma inaspettata, quando
ormai ci si è dimenticati di quell'introduzione.
E rimango qui, col dubbio
di averne parlato troppo bene, sempre per quella questione del
trabocchetto. Ma non è solo il fatto che mi sia piaciuto di per sé;
è l'aggiungersi della meta-narrazione, del dialogo tra parole e
istanza impalpabile, dello sbalzo fuori dal libro a pagina 252. È la
macchina della storia che si racconta.