L'estate
segreta di Babe Hardy di Fabio Lastrucci, pubblicato da
Dunwich nel 2013. Questo libro è stato il mio regalo di
laurea da parte di me stessa, agguantato con una certa solerzia
poiché era da un sacco di tempo che lo infilavo nelle liste dei
regali di compleanno/Natale e nessuno me l'aveva ancora preso.
Dunque,
vediamo. Non è un libro facile da descrivere. Tanto per cominciare,
nonostante la trama principale sia piuttosto lineare e veda come
protagonisti Stan Laurel e Oliver Hardy (Stanlio e Ollio, proprio
loro) affetti da una forma fastidiosa e invalidante di vampirismo,
sono presenti un buon tot di personaggi di contorno, che
arricchiscono la storia e smuovono, direttamente o indirettamente, le
cose per i nostri pallidi protagonisti. A volte non è poi chiaro
cosa vogliano, né cosa li muova. È chiaro che il delinquentello da
strapazzo Lefty Miracle non abbia poi un piano specifico, e che tutto
ciò che vuole è raccogliere un po' di soldi. Eppure riesce in un
paio di occasioni a intersecare le linee narrative degli attori
principali, senza neanche rendersene conto. C'è Bela Lugosi,
principale sospettato del contagio, col suo accento farlocco e i suoi
servitori cinesi. C'è il tenente Nunnaly, che vorrebbe arrivare in
fondo alla faccenda a quella maniera tipica dei film gangster
americani che fuori dalle sale appare decisamente ridicola. C'è
Douglas Fairbanks con la moglie Mary Pickford, due celebri attori del
muto. E c'è un dottore tedesco che segue le tracce dell'infezione
vampirica.
Questo
libro è tante cose. È un inno al cinema americano degli anni '30,
con cammei e citazioni. Lastrucci afferma di averne disseminati
almeno una trentina, e io dubito di averli riconosciuti tutti. Anzi.
Ed è anche una raffigurazione meno smagliante, meno innocente e più
squallida del solito della Hollywood degli anni '30.
È
anche e soprattutto una storia comica, e il comico agisce secondo
diversi meccanismi. Primo fra tutti il fatto che i personaggi
reagiscono in maniera credibile a un fatto incredibile. Non si
struggono nei loro mantelli, filosofeggiando sull'umana sorte, né
sentendosi esclusi e “altri” rispetto al mondo di cui avevano
fatto parte fino al contagio. Ogni volta che qualcuno – di solito
Hardy – vira verso il teatrale, c'è sempre qualcuno o qualcosa
pronto a riportarlo coi piedi per terra. E il contrasto tra irreale e
reale si sente. Un altro strumento della comicità sono i dialoghi,
che ho gradito moltissimo. I personaggi scherzano, si rimbeccano,
litigano, svicolano. E poi c'è l'assurdità delle situazioni, che
viene spesso portata all'estremo. Il fatto che non disturbi e che non
cozzi mai contro la sospensione dell'incredulità dipende almeno in
parte, secondo la mia modesta opinione, dall'ambientazione
hollywoodiana, in cui per cinematografica abitudine tutto ci risulta
possibile, pure l'irrazionale.
Lo
stile che accompagna le vicende è preciso, non invasivo, e allo
stesso tempo leggero. Si lega perfettamente al tono che l'autore
vuole dare alle vicende, quello di un prospettiva un po' slapstick
che non si può prendere sul serio.
Personalmente
non posso affermare di sapere alcunché su che tipo di persone fossero Stan Laurel e Oliver Hardy. Qui, come personaggi, funzionano eccome.
Hardy è goffo e ingenuo, Stan è il pragmatico calcolatore. Entrambi
bevono, si punzecchiano, vanno a donne. È strano pensare agli
Stanlio e Ollio dei film che guardavo da piccola come a persone vere,
ricche e volgari, al rapporto disastrato che hanno con le rispettive
famiglie. È strano, ma funziona.
Va
da sé che consiglio moltissimo questo libro. Forse non ai fedeli dei
vampiri vecchio stampo, ma diamine se lo consiglio.