Questo racconto mi è uscito particolarmente lungo. Una sua versione più scarna, tagliata a metà, mi giaceva sul desktop ormai da mesi, in attesa di una conclusione. Chissà per quale ragione, non mi usciva mai la Lady Catherine che volevo. Questa volta penso di essere riuscita a dipingerne una versione accettabile. Per una corretta comprensione, consiglio di leggere prima Breve storia della bibliogenesi - ma perché dovreste?
Tremo,
intrappolata nella carrozza chiusa che mi è stata imposta per
raggiungere la tenuta di Burghley House. Sembra che il cocchiere ce
la metta tutta per accelerare prima di passare su una buca, e di
tanto in tanto mi pare di avvertire un tono di indignata protesta
provenire dai cavalli, costretti a sterzare così velocemente che è
un miracolo se non mi ritrovo a districare queste dannatissime balze
da una pozzanghera di fango e melma. Perché diluvia, tuona e il
vento soffia inferocito, ma da brava giornalista non posso
permettermi di giudicare questo tempo dannato “impraticabile”.
Qualunque cosa accada, per quanto faccia caldo o freddo, che tu abbia
di fronte un uomo nudo o un bambino sventrato, sospira di sollievo e
ringrazia di non trovarti sotto una pioggia di bombe nel mezzo di una
guerra civile. Quindi forse non è il caso che io continui a
lamentarmi, e a foraggiare un'introduzione sdegnata per un viaggio
scomodo in una carrozza che, a ben vedere, è stata pulita e lucidata
in mio onore.
La
donna che mi accingo a incontrare è stata l'unica parente di
Elizabeth Bennet che si è detta disposta a fare due chiacchiere con
me, nonché l'unica che il mio informatore sia riuscito a trovare.
“Prendere o lasciare”, mi ha detto al telefono, stizzito dalla
mia delusione. Ovviamente, ho scelto di “prendere”, e dunque di
intervistare Lady Catherine de Bourgh. E dopo la somma delusione,
perché già mi immaginavo immersa in una vivace conversazione
insieme all'adorabile Lizzie e al misterioso Mr. Darcy, mi sono detta
che una simile intervista è una gran bella occasione. Voglio dire,
tutti conosciamo Elizabeth e Mr. Darcy, sono la coppietta più amata
della storia della letteratura inglese. La prospettiva di un
pomeriggio passato a chiacchierare con loro non vale la metà della
possibilità di chiedere finalmente a Lady Catherine il suo punto di
vista sulla vicenda.
Doug,
il mio capo, si è detto entusiasta per come sono andate le cose
grazie all'irreperibilità della coppia d'oro. Secondo lui sarebbe
venuto fuori un articolo melenso, zuccheroso, adatto solo al pubblico
femminile sempre pronto a sdilinquirsi di fronte alla storia d'amore
più romantica di tutti i tempi. Ho cercato di fargli capire che la
storia di Elizabeth e Darcy è molto più che una storia d'amore, che
è necessario leggere le loro vicende in una chiave cinica e ironica
per poterle apprezzare appieno, ma lui niente, come se non avessi
neanche parlato. E mentre io cercavo di riportarlo su un livello di
giornalismo letterario accettabile, sottolineando quanto sarebbe
stato interessante vedere le cose dalla prospettiva inedita di Lady
Catherine, e quanto il suo comportamento da donna forte in stile
matriarcale oggi sarebbe connotato in modo positivo, lui niente,
partiva per lidi di gossip e pagine patinate. “I cattivi sono il
nuovo trend”, diceva, aggiungendo che dovevamo assolutamente
puntare sull'effetto Miranda. Ho poi dovuto aspettare di rimanere
sola con la sua segretaria per farmi spiegare che si riferiva a
Miranda Priestly di Il diavolo veste Prada.
Le
direttive di Doug mi pulsano nel cervello, e stridono contro
l'articolo che mi è sbocciato in testa quando ero ancora al telefono
col mio informatore. Doug vuole un articolo che metta in risalto
l'arroganza di Lady Catherine, vuole poter annunciare a caratteri
cubitali sulla prima pagina che la titolata è ancora lì che
sghignazza per come ha diseredato il nipote e rifiutato sua moglie.
Se la immagina come una vecchia raggrinzita, una donnina in nero
ripiegata su se stessa, le dita adunche e il naso pendulo, gli occhi
spiritati mentre mi offre una mela. Doug non ha mai capito niente di
classici inglesi.
Ma
devo anche ammettere che non ho mai condiviso il livore che tutti
sembrano portare a Lady Catherine de Bourgh. Certo, è spocchiosa e
presuntuosa, è tiranna e calcolatrice. Eppure, a modo suo, è anche
onesta. Magari non sarà un grande traguardo, per una che dopotutto
se lo può permettere, ma per l'epoca in cui è nata è una gran
cosa, e di questo c'è da rendergliene atto. Ho sempre pensato che
fosse un personaggio interessante, e che ci sia ancora molto da dire
e raccontare su di lei. Come sarà stata la sua vita da nubile?
Com'era da giovane? Come è riuscita, in una società patriarcale
come l'Inghilterra georgiana a diventare una donna tanto forte, il
faro attorno al quale ruotano una famiglia e un'intera comunità? E
soprattutto, come diavolo faceva a sopportare Mr. Collins?
Ovviamente,
questo mio personale interesse nei suoi confronti non mi impedirà di
vendicarmi a colpi di inchiostro, se dovesse azzardarsi a criticare
quanto resta della puntigliosa acconciatura che mi si è sfaldata nel
giro di pochi minuti in carrozza.
Dicono
che Lady Catherine de Bourgh non sia cambiata affatto da quando ha
annunciato a Elizabeth che avrebbe diseredato il nipote, se avesse
osato sposarla, e che con la stessa alterigia con cui ha cercato di
comandare le vite di chi le stava intorno, così continua a imporre
al mondo il proprio rifiuto per il presente, con tutto ciò che ne
consegue. E ne consegue che una volta scesa dal treno, mi sono dovuta
infilare nel bagno del bar della stazione per infilarmi un vestito
Regency scovato in un negozio di costumi per giocatori di ruolo.
Rosa, di – credo – mussola, con dei ricami di pizzo. Non mi sono
mai vergognata tanto da quando mia madre ha scoperto che scrivevo
fanfiction su Twilight. Fortunatamente, a giudicare dalla reazione di
chi mi stava intorno, pare che in zona siano piuttosto abituati alla
vista di donzelle in abiti carnevaleschi. Lady Catherine deve avere
più ospiti di quanto immaginassi, ed è probabile che pretenda da
tutti lo stesso rigore stilistico.
Non
che le pretese finiscano qui. Un paio di giorni fa ho contattato una
vecchia compagna di università che ha scritto un saggio
sull'influenza delle buone maniere nelle decisioni economiche tra
l'epoca Regency e il periodo vittoriano, per farmi spiegare come fare
una corretta riverenza e come sedermi in maniera appropriata, con che
tono porre le giuste domande e quant'altro. Tuttavia, quando ho
rivelato alla mia vecchia compagna a chi erano dovute tutte le mie
richieste, quella ha tagliato corto invitandomi a sputarle in faccia,
e a mancarle di rispetto il più possibile. Dopodiché si è
rifiutata di aiutarmi oltre, e dopo qualche insistenza mi ha sbattuto
il telefono in faccia. Dannata fanatica.
Burghley
House mi appare in seguito a una svolta che ho seriamente pensato
sarebbe culminata nel capottarsi della carrozza. È imponente, enorme
e stupenda da fermare il cuore. Abbasso lo sguardo sul mio vestito
sgualcito dal viaggio, sulle scarpe già inzaccherate di fango, e mi
chiedo cosa abbia provato Elizabeth, trovandosi per la prima volta al
cospetto di una proprietà del genere. Ma mentre la carrozza si
ferma, e un valletto accorre per aprirmi lo sportello, ingoio in
fretta questo fastidioso sentimento di inadeguatezza. Innumerevoli
film e serie televisive tratte da Orgoglio e Pregiudizio mi hanno
preparata a questo momento. E poi ho già intervistato un pazzo
omicida, un vampiro narcisista e omicida e quattro
moschettieri che, diciamocelo, pur con tutta la loro simpatia, hanno
spesso bagnato le loro spade di sangue. Quindi posso dirmi più che
pronta a incontrare una signora di mezz'età con la puzza sotto il
naso. Il peggio che mi possa capitare, penso, è che mi chieda con
fare disgustato chi ha cucito il mio vestito, o che mi chieda di
suonare per lei. In quel caso, in assenza di un ukulele, dovrò
declinare.
Il
maggiordomo che la serve è stato chiaro, nella lettera di istruzioni
vergate a mano che ha inviato alla rivista: niente aggeggi
elettronici, la tecnologia turba irrimediabilmente l'umore di Sua
Signoria. Prima di entrare dunque, spengo il telefono, mi tolgo
l'orologio dal polso e relego tutto nella tasca interna della
minuscola borsetta che mi sono portata dietro, una specie di sacca
con un cordoncino che, mi è stato riferito, dovrebbe adattarsi
all'epoca. Non sono tuttavia certa che la costumista abbia afferrato
quanto sia vitale l'accuratezza storica del mio outfit, e non
metterei la mano sul fuoco sulla sua sincerità. È una sacca
orribile, ed è probabile che volesse semplicemente disfarsene.
La
porta viene aperta dallo stesso valletto che mi ha accolto appena
scesa dalla carrozza. Mi appunto mentalmente il suo, di outfit. La
parrucca bianca, la giacca dai colori inaspettatamente accesi –
azzurro splendente, con bottoni in madreperla e ricami dorati – e i
pantaloni davvero troppo, troppo stretti. Non mi guarda in faccia, e
non so se si tratti di etichetta o di imbarazzo per doversi mostrare
conciato in questo modo. Vorrei dirgli che lo capisco, e consolarlo
raccontandogli della mia disperazione mentre cercavo di indossare da
sola il corsetto nell'angusto bagno della stazione – impresa che si
è rivelata impossibile, e per la quale devo ringraziare la
sconosciuta passante che mi ha raggiunta nel bagno per rinchiudermi
in questo dannato aggeggio – ma tutto sommato credo sia meglio
evitare.
L'atrio,
intanto, mi accoglie gelido e meraviglioso insieme. Pavimenti di
marmo, soffitti altissimi, porte intarsiate. E neanche uno dei cinque
camini che posso scorgere da qui è acceso. Una cameriera, intanto,
mi fa cambiare le scarpe con un paio asciutto e pulito, non poi così
diverso da quello che indossavo prima.
<<Sua
Signoria vi attende nel salotto piccolo.>>
Ha
una voce scherzosa, e mi guarda negli occhi con fare divertito. Le
sorrido a mia volta, ma non colgo la sfida a portare avanti uno
scherzo su “Sua Signoria”. Dopotutto alla ragazza è andata molto
meglio che al valletto, quanto a uniforme.
Mi
precede lungo un corridoio stretto e buio, che suppongo sia riservato
alla servitù, e mi raggiunge l'eco di una voce maschile e pomposa
che mi annuncia come “Miss Agata Vivaldi, giornalista”. Dopo
pochi secondi sbuco insieme alla cameriera in una stanza piccola e
calda, che ci metto un po' a mettere a fuoco. Ogni superficie è
coperta da un ammasso informe di stoffe e tappeti di colori che
variano dal giallo ocra al rosso mattone, la carta da parati beige
con ricami dorati mi confonde e Lady Catherine è vestita con un
abito così nero che per un attimo il mio occhio si rifiuta di
accettare la sua immagine se non come un'ombra spuntata per errore in
un tripudio di luce.
Mi
riprendo subito. Sorrido, faccio la mia riverenza e mi trattengo dal
volgere uno sguardo disperato verso la cameriera, che si è dileguata
in silenzio subito dopo avermi accompagnata.
<<Miss
Agata.>>
Alzo
lo sguardo e la osservo, cercando di registrare ogni particolare.
Oggi la mia memoria sarà messa a dura prova. “Niente aggeggi
elettronici”, si è impuntato il maggiordomo, costringendo me e
Doug a firmare un contratto rigidissimo. Per me si traduce in “niente
registratore”. Non può sfuggirmi niente.
Ha
i capelli striati di grigio, ma perlopiù ancora scuri, che suppongo
raccolti in una crocchia alta ma morbida, coperta da una cuffia scura
dalla quale scendono merletti di velluto blu notte. Ha un abito che
mi ricorda orrendamente quello della signorina Rottenmeier –
l'odiatissima signorina Rottenmeier - di Heidi, solo più
infinitamente più costoso, di una stoffa più lucida e pesante che
davvero non saprei come definire e un ampio colletto di pizzo leggero
come zucchero, tenuto fermo sotto la gola da una spilla di smeraldi
che per un unico, delizioso attimo mi suggerisce di cambiare
radicalmente lavoro e pensare a una carriera di ladra e omicida di
vecchiette.
Lady
Catherine sospira profondamente, e osservo con timore le sue labbra
spaccarsi in un sorriso tirato, mentre alza rigidamente il braccio
per indicarmi il divano.
<<Sua
Signoria>> mi sforzo di sillabare <<Per me è davvero un onore
conoscerla.>>
<<Oh,
Miss Agata.>> replica, con voce flautata <<Non siate sciocca.>>
Il
sorriso non le scompare dalle labbra, è come se non riuscisse a
toglierselo dalla bocca, e l'effetto è piuttosto inquietante, visto
che le sue sopracciglia sono immobili e i suoi occhi spalancati, come
se stesse fissando un camion in procinto di investirla. C'è qualcosa
che non va, avverto nell'aria un disagio che non è soltanto mio, e
questo mi confonde.
<<Dunque
siete una rappresentante della stampa. Una cronista. Immagino che la
vostra vita sia piuttosto avventurosa, e che possiate vantare alte
frequentazioni.>>
L'affermazione
culmina in un punto di domanda pieno di speranza. È il tono di un
bambino che chiede conferma sui regali di Natale. Balbetto qualcosa
di indistinto mente estraggo penna e taccuino dalla borsa/sacchetto
per le biglie.
<<Che
sciocca>> ringhia Lady Catherine <<Sicuramente avrete le vostre
domande da pormi. Vi prego di non avere indugi e di non lesinarmi
alcuna critica o osservazione, sa il cielo se non sono una donna
pronta ad ammettere le proprie mancanze.>>
A
questo punto non so bene come muovermi. Questa non è la Lady
Catherine che ho imparato a conoscere e a rispettare dopo tante
letture di Orgoglio e Pregiudizio. Una parte di me vorrebbe
interromperla, andarsi a sedere con lei sull'altro divano, prenderle
la mano e chiederle cosa stia succedendo, se qualcuno le stia
dettando le battute da un auricolare. Magari stanno tenendo in
ostaggio sua figlia e trattarmi con deferenza è l'unico modo che ha
per salvarla.
<<Naturalmente.>> mi risolvo a commentare.
Ero
pronta a scusarmi mille volte per il mio abito, per la mia
acconciatura, per questa borsa che butterei volentieri nel camino,
per la mia riverenza e per il timbro della mia voce, che talvolta mi
dicono essere un po' troppo squillante. Giammai mi sarei immaginata
una Lady Catherine piena di riguardo, che si costringe di sorridermi
nonostante lo sforzo rischi di farle lacrimare gli occhi. Mi sento
impreparata innanzi a una simile prova.
<<Vedete,
Lady Catherine, voi siete senza dubbio uno dei personaggi
emblematici della letteratura mondiale. Siete stata anzitempo una
donna decisa, energica e pervicace, una donna forte da cui anche la
mia generazione può trarre esempio.>>
Lady
Catherine stringe le labbra, mentre le sopracciglia prendono una
piega innaturale che sa più di pianto che di compassato interesse.
Tuttavia non cedo.
<<Vorrei
chiederle, Lady Catherine, chi vi ha ispirato durante la vostra
crescita personale, se avete subito l'influenza, ad esempio, di un
membro della vostra famiglia.>>
<<Oh,
la mia famiglia.>> il suo viso si rilassa, e si riaccomoda sul
divano. Sorseggia il caffè, aggrottando le sopracciglia nello
sforzo di ricordare. <<No, direi di no. Non ho avuto la fortuna di
conoscere appieno mio padre, Lord Chawton, che tuttavia mi è stato
sempre descritto come un uomo integerrimo e assennato. Spesso
inviava a nostra madre le trascrizioni dei sermoni che gli
sembravano più indicati come letture serali per me e per i miei
fratelli.>>
Inizia
a raccontare di un periodo che cerca di smerciarmi come felice e
spensierato, ma che intravvedo cupo e privo di affetti. Parla
soprattutto del suo cane, un barboncino costantemente terrorizzato di
nome Edmund, che riposava sul grembo della madre. Era una donna mite
e silenziosa, ma poco solare e priva di calore. Lady Catherine la
descrive senza troppo affetto ma, mi pare, con una certa nostalgia, e
rispetto.
<<Non
era certo quella che si potrebbe definire una donna ostinata o
battagliera>> sospira <<ma nessuno avrebbe mai potuto
distoglierla dal divano se non ne aveva voglia. Ai suoi tempi era
considerato elegante essere pigri e languidi, e lei era sempre
immancabilmente elegante. Vestita coi suoi abiti migliori, riceveva
gli ospiti nel suo salotto privato, e li congedava nella stessa
posizione nella quale li aveva accolti. Era ammirevole, a suo modo.>>
Si
interrompe per un attimo, le dita tamburellano appena sulla tazzina.
<<Non
è mai venuta in visita a Rosings, per quanto l'abbia invitata.>> si
ricompone immediatamente, raddrizzando le spalle <<E trovo ci sia
molto da cui prendere esempio da una simile coerenza.>>
Mi
fissa dritto negli occhi, come a sfidarmi, e per la prima volta da
quando sono entrata riconosco almeno un'ombra di Lady Catherine.
Annuisco.
<<Vorrei
chiederle dei suoi rapporti con i coniugi Collins, se...>>
<<Andati.>> mi interrompe <<Si sono trasferiti in Scozia, mi pare. Anni fa.
Decenni fa. Di loro non so più nulla.>>
<<Davvero
un peccato.>> commento.
<<Lei
trova?>>
Nell'acidità
della sua voce e nel sopracciglio che le si inarca al punto da
celarsi sotto l'ombra della cuffietta, ritrovo un barlume della de
Bourgh che conosco. Non riesco a trattenere un sorriso, e lei se ne
accorge. Si ricompone, rassettandosi la gonna sulle ginocchia, e
raddrizzando la schiena.
<<Come
sono i suoi rapporti con l'amministrazione di Burghley House? So
che l'hanno accolta con...>>
<<I
miei rapporti con l'amministrazione sono tra i migliori che si
possano sperare di ottenere coi propri affittuari.>> m'interrompe,
con voce squillante. Il suo ferreo sorriso non ammette repliche. <<Certamente è stato necessario fare richiesta di alcuni cambiamenti,
non si può certo pretendere che una signora venga disturbata in
ogni momento della giornata. Ma l'amministrazione non ha preteso
alcunché. Al momento dispongo di un'ala modesta ma rispettabile
della tenuta, e di un angolo del giardino. Naturalmente è mio
piacere accogliere alcuni dei visitatori, e illustrare loro le
regole del corretto portamento e come è d'uopo comportarsi in
presenza di un Pari. Il servizio che rendo a Burghley House, spero
che riusciate a capirne la portata, certamente ripaga più che
abbastanza l'usufrutto di questo spazio.>>
<<Naturalmente.
Sono certa che le visite alla tenuta siano cresciute a dismisura da
quando...>>
<<Decuplicate!
I visitatori sono dieci volte tanto. Non può certo trattarsi di un
caso, converrete con me, se da quando ho accettato di risiedere in
questa parte della tenuta, gli ospiti sono aumentati in questa
proporzione.>>
<<Sono
pienamente d'accordo con voi.>>
Annuisco.
Davanti a me c'è Lady Catherine de Bourgh, le dimostrerei il mio
pieno appoggio anche se ipotizzasse di invadere la Cina con un
esercito composto principalmente da criceti.
<<E
ditemi, come trascorrete le vostre giornate qui a Bughley House? I
nostri lettori saranno certo curiosi di saperlo.>>
<<Oh,
nel modo consueto. Posso dire che le mie giornate non sono cambiate
poi molto, da quando ho lasciato il mondo delle pagine. Passeggio
per il parco, ricevo le visite di numerosi ospiti, cui cerco di
elargire i consigli che solo la saggezza e una corretta educazione
possono dare. Su mia richiesta, una volta alla settimana, alcune
fanciulle studiose di musica vengono a intrattenermi coi loro
strumenti. Talvolta non sono fanciulle, ma giovanotti; pensare che
oggigiorno la musica è considerata un affare da uomini.>>
Storce
il naso, e il sorriso le si incrina per qualche secondo. Ma è stoica
e ferrea, e quel sorriso metallico torna a solcarle il volto.
<<Le
vostre vicende hanno avuto inizio nell'epoca della Reggenza; è
passato molto tempo, la tecnologia ha fatto innumerevoli passi
avanti. Come vi trovate, in questo mondo così cambiato?>>
Lady
Catherine si sgonfia, ed è come se le sue spalle perdessero
spessore. D'un tratto sembra occupare uno spazio minore sul divano, e
ancora una volta prende tempo lisciandosi la gonna. Il sorriso si
impietrisce, gli occhi guizzano per un attimo verso l'esterno,
sull'angolo di giardino che si intravvede da qui.
<<I
cambiamenti di questo mondo>> inizia, con una voce tanto rigida
che deve nascondere chissà quale tremore <<non sono di mio
interesse. Per quanto mi riguarda, la civiltà non può raggiungere
un punto alto come quello del mondo in cui sono nata. E non intendo
discenderne.>>
<<Dunque>> insisto, perché è chiaro che questa sarà la parte più
interessante dell'intervista; cerco di appuntarmi la sua
espressione, guardinga e feroce al tempo stesso <<Non uscite mai
da Burghley House? Neanche per...>>
<<E
che cosa dovrei trovare, fuori da Rosings, che susciti il mio
interesse più di quanto io vi possa trovare all'interno?>> replica,
allungando una mano per suonare il campanello. Subito compare la
stessa cameriera che mi ha accolto all'ingresso, e per un attimo
temo che Sua Signoria voglia amabilmente sbattermi fuori <<Sara,
io e Miss Agata siamo assetate; provvedi a portarci del tè.>>
Sara
si inchina e sguscia fuori dalla stanza con la stessa velocità con
cui era entrata. Sospiro, e prendo qualche appunto sul quaderno.
Tento di fare uno schizzo della stanza, delle fantasie delle tende e
dei divani. Sarà un lavoraccio tentare di riprodurli per il
giornale. In ogni caso, temo che l'argomento si sia chiuso senza mai
essersi esaurito, ma lei torna a parlare, questa volta con un tono
altero e distaccato che me la fa riconoscere come la vecchia arcigna
che ho incontrato nel libro; mi verrebbe da abbracciarla.
<<Quando
si è in possesso di una certa cultura>> comincia <<non è
affatto inconsueto trovare diletto in occupazioni che si svolgono
all'interno delle proprie mura. La musica; la lettura.>> si
interrompe, e immagino intendesse scagliarsi contro la frivolezza
dei romanzi, ma immagino che, provenendo lei stessa da un romanzo,
non si senta più in diritto di fare tanto la pignola <<Una casa è
un mondo, Miss Agata.>>
Annuisco,
prendendo appunti. Sappiamo entrambe cosa finirà nel mio articolo.
Parlerò della sua quotidianità vuota e ritirata, del suo terrore
per il mondo esterno. È crudele, trovo, che proprio lei abbia dovuto
incarnarsi. La sua bibliogenesi, forse, è stata una punizione.
Mi
rendo conto soltanto adesso di un vuoto nella stanza. Il mio sguardo
corre istintivamente alla poltrona vuota dall'altro lato del divano,
e vedo che Lady Catherine ha seguito il filo dei miei pensieri.
<<A
breve giungeranno degli ospiti, Miss Agata. Entrambi borghesi,
certo.>> il misto di curiosità e disprezzo con cui calca sulla
parola mi fa sorridere <<Ma entrambi beneducati, mi dicono.
Entrambi provengono dallo stesso libro, che non ho ancora avuto il
tempo di leggere. Un certo Karl K. ha inteso di contattarmi per
discutere del processo del nipote, un giovane ammodo, con un impiego
in banca.>>
Sono
certa che qualcuno abbia cercato, nel tempo, di farle capire che al
giorno d'oggi non c'è nulla di scandaloso nel lavorare, e che
esistono vari gradi di borghesia, ad ognuno dei quali corrisponde una
condizione sociale. Eppure ha le labbra strette, come se avesse morso
un limone.
Ci
metto un attimo a capire la portata di ciò che mi ha appena detto.
<<Joseph
K!>> salto su, mentre Sara fa il suo silenzioso ingresso nella
stanza, con un vassoio carico <<Joseph K. vuole parlarvi del suo
processo!>>
<<Mia
cara>> fa lei, melliflua <<Se urlate così, spaventerete i
visitatori.>>
Sara
versa il tè, impassibile. Il tavolino di fronte a noi viene
apparecchiato con ogni sorta di leccornia inglese; calde volute di
fumo si alzano dalle tazze, appena riempite. Io e Lady Catherine non
stacchiamo gli occhi l'una dall'altra
<<Sono
certa che si tratterà di un incontro interessante. Per entrambe le
parti.>> dico, lentamente.
<<Lo
spero, Miss Agata, lo spero. Purtroppo dovrò chiedervi di
lasciarci, perché sarebbe davvero poco decoroso se facessi
incontrare un imputato, certamente innocente, in cerca di consiglio
con una giornalista. Ma posso presumere che avreste piacere di
rivolgere qualche domanda al signor K?>>
Deglutisco,
e senza distogliere lo sguardo dall'espressione ferina di Lady
Catherine, allungo una mano a prendere la tazza di tè.
<<Sarei
entusiasta di poter ascoltare la sua storia direttamente dalle sue
labbra.>>
Soffio
sulla tazza, e le labbra di Lady Catherine hanno un guizzo
<<Non
mancherò di farlo presente ai miei ospiti, dunque. Farò in modo
che il maggiordomo fornisca il vostro indirizzo al signor K., in
modo che questo possa contattarvi a suo piacimento.>>
Sorseggiamo
il tè in silenzio per qualche secondo. Dunque sospiro, e torno ad
afferrare penna e quaderno.
<<Sono
certa che i nostri lettori saranno più che curiosi di sapere da
quale sarta siete solita servirvi.>>
<<Oh,
Miss Agata>> esclama lei, come se avessi toccato un punto dolente;
il suo sorriso, finalmente sincero, per quanto feroce, dice il
contrario <<La ricerca di una sarta che meriti davvero questo
titolo è stata inverosimilmente ardua.>>
Pochi
minuti dopo vengo congedata senza troppe cerimonie. Ho riempito due
pagine intere di lamentele sulle sarte della zona, sulla difficoltà
di trovare “oggigiorno” servitori leali e riservati,
sull'orgoglio impropriamente mostrato da alcuni musicisti che erano
giunti a intrattenerla. Uno ebbe l'ardire, mi racconta, di chiamarla
semplicemente “Signora”. Inaudito, è stato il mio commento.
Sara
mi conduce alla porta in silenzio, e io la seguo per il corridoio
buio. Sento dei passi che si avvicinano al salotto; i due K, con ogni
evidenza, sono stati fatti passare da tutt'altra strada.
Sto
per uscire, quando Sara mi ferma.
<<Posso
chiederle>> si gratta appena la fronte sotto la cuffietta; non
riesco a immaginare quanto debba essere fastidioso indossarla
continuamente <<di non essere troppo spietata con Lady Catherine,
quando scriverà l'articolo?>>
<<Dipende.>> rispondo <<Perché me lo sta chiedendo?>>
Lei
si guarda alle spalle, per assicurarsi che non ci sia nessuno pronto
a origliare.
<<Lady
Catherine è una donna molto sola; so che molti la vedono come una
vecchia stronza, e forse la è, o la è stata. Ma al momento è una
donna sola. Di sua figlia non c'è traccia, e i suoi parenti non
hanno la minima intenzione di incontrarla.>>
<<Quali
parenti?>>
<<Tutti.>> sibila lei, avvicinandosi <<Sono anni che cerca di contattare
Mr. Darcy e sua moglie. Faceva la sostenuta, ma col tempo le sue
lettere sono diventate patetiche. Sa di non avere più ricchezza né
potere, qui, e perfino i Collins l'hanno abbandonata.>>
La
sua voce è piena di disprezzo, e per un attimo temo che voglia
esprimerlo sputando platealmente sul pavimento.
<<Infierire>> sussurra <<sarebbe veramente da stronzi.>>
<<Farò
del mio meglio.>> sospiro dopo qualche secondo, come se mi fossi
presa il mio tempo per pensare. Evito di comunicarle che non
contrarierei Lady Catherine per tutto l'oro del mondo, ora che c'è
in ballo un'intervista con Joseph K.
<<Bene.>> annuisce lei. Qualcosa nel suo sguardo mi fa pensare che se avessi
risposto diversamente, mi avrebbe fatta risalire sulla carrozza a
calci.
Annuisco
e mi allontano. Esco da Burghley House, scendo le scale, torno alla
carrozza e mi accorgo che il valletto, girato di spalle, cerca di
aggiustarsi meglio il cavallo dei pantaloni. Provo per lui una pena
infinita, e fingo di non essermene accorta, mentre salgo sul
predellino e mi tolgo la dannatissima cuffietta.