Scritto
sulla tua terra di Mauro Libertella – traduzione di Vincenzo Barca
– Caravan Edizioni, 2015
“Facci
sapere cosa ne pensi, ci teniamo”, mi scrivono le Caravan, sotto il
ringraziamento che ho lasciato sulla loro pagina facebook. Un paio di
giorni fa è finalmente giunto tra le mie mani uno dei pacchi con gli
acquisti che avevo commissionato a Irene-Nereia (qui il suo
sfavillante blog) per la fiera romana Più libri, più liberi. E
dentro c'era un mio acquisto – Whisky e chicchi di caffè di Ferran
Torrent, Gran via Edizioni – e Scritto sulla tua terra, oltre che
il volutissimo Alle fanciulle e alle figlie del popolo di Anna Maria
Mazzoni, ultima uscita della collana femminista di Caravan. C'era che
a Irene avevo detto, per quanto riguarda la Caravan, “Scegli tu,
stupiscimi”, o qualcosa del genere, perché Caravan partecipava a
Blog Notes (qui per capire cosa sia) e Irene ha passato un
sacco di tempo nello stand. È andata che mi hanno regalato, da
recapitarmi, entrambi i libri che ho citato. Questo compreso. Non
sono un granché nei ringraziamenti, ma ancora grazie mille, Caravan
Girls.
Dunque,
il libro. È
un libriccino piccolo, corto, di nemmeno cento pagine. Racconta, in
sostanza, il lutto di Mauro, figlio di Hèctor Libertella, che in
Argentina è uno scrittore famoso, e che qui forse arriverà prima o
poi. Mauro racconta del padre, del suo rapporto con l'alcol, di
quello che rimane di una vita che è arrivata alla fine. Del rapporto
di Hèctor con la morte, soprattutto negli ultimi tempi. Della sua
dignitosa resa.
Parla
anche di sé, Mauro, attraverso la figura del padre. Perché Mauro
vuole scrivere, ma teme il peso del nome Libertella, che Hèctor ha
caricato di significati e aspettative. Dev'essere dura fare i conti
con un'eredità del genere.
E
dunque, in realtà non c'è molto altro da dire. È la storia di
Mauro, un ventitreenne cui è morto il padre, e cerca di fare i conti
con la sua perdita scrivendone. Lo stile è chiaro, pulito,
scorrevole. La prospettiva è realistica, non ci sono quegli
spostamenti verso l'irreale che ci si aspetterebbe da uno scrittore
sudamericano.
Dicevo
all'inizio che le Caravan Girls mi hanno chiesto di far loro sapere
cosa ne pensavo. Ecco, qui cito la stessa risposta che ho lasciato
sulla loro pagina.
“L'ho
letto tutto in due mandate, con l'influenza e gli occhi che
bruciavano.”
Penso
sia una risposta esplicita.
Il
libraio che imbrogliò l'Inghilterra di Roald Dahl – traduzione di
Massimo Bocchiola – Guanda, 2009
Questo
libriccino mi è stato regalato per la laurea. Diciamo che era il
regalo da scartare, a fronte di un regalo enorme di cui ancora non mi
sono appropriata – più o meno – in quanto immateriale. Ne
parlerò sicuramente, ma non ora. Comunque ho gli amici più belli
del mondo. Invidiatemi.
Io
adoro Roald Dahl. Lo adoravo da piccola, quando mi sono divorata
tutti i suoi titoli nella collana degli Istrici, e gli ho voluto un
sacco di bene quando Longanesi ha pubblicato, qualche anno fa, Lo zio
Oswald, di genere assai diverso. Questi due racconti mi mancavano, ed
era veramente un peccato. Sono geniali. Brevi, assurdi e geniali.
Il
primo racconta di William Buggage e della sua segretaria,
ufficialmente proprietario di un negozio di libri usati e rari.
Principale occupazione, truffatore.
Nel
secondo si assiste alla reazione di un genio della meccanica ai
continui rifiuti con cui le riviste letterarie rispondono ai suoi
racconti.
Sono
entrambi racconti grotteschi e cinici, cattivi. Mostrano la pochezza
dell'animo umano, personaggi privi di dignità e rispetto per il
proprio mestiere, perfino per ciò che dovrebbero amare. E nello
stesso tempo sono due racconti che lasciano col sorriso sulle labbra,
e un po' di amaro per non aver mai avuto l'occasione di conoscere
Roald Dahl in vita.