Dietro la scena del crimine - Morti ammazzati per fiction e per davvero di Cristina Brondoni - L'incontro al Circolo dei Lettori
Non
sono moltissimi a saperlo, neanche tra le mie amicizie più strette, ma la criminologia è stata una delle mie passioni adolescenziali.
Dico che “è stata” perché a un certo punto avevo la mente così
piena di omicidi e modus operandi che non riuscivo più a dormire la
notte. In realtà penso di aver abbandonato la scienza forense e i
thriller/noir di cui mi circondavo (James Ellroy, Ruth Rendell,
Jeffery Deaver, Elizabeth George...) perché l'estate era finita, la
scuola stava ricominciando e non potevo più permettermi di restare
sveglia fino alle cinque del mattino e recuperare il sonno dormendo
fino all'una di pomeriggio. Sarei stata una pessima criminologa,
diciamocelo.
Ad
ogni modo, ieri sono stata alla presentazione di Dietro la scena del
crimine – Morti ammazzati per fiction e per davvero di Cristina
Brondoni, edito da Las Vegas. Ammetto che non ho ancora avuto modo
di leggere la mia copia, ricevuta direttamente dalle mani
dell'editora Carlotta come regalo di laurea – che sia di buon
auspicio! - quindi mi limiterò a parlare dell'incontro, e rimanderò
le impressioni sulla lettura a quando l'avrò terminata.
Dunque,
vediamo. L'incontro si è svolto nella Sala Lettori del Circolo dei Lettori di Torino, un posto semplicemente meraviglioso di cui non
riuscirei neanche a concepire l'esistenza se non l'avessi visto coi
miei occhi. Non tanto perché copre tutto un piano di un edificio
d'epoca, tutto poltrone antiche, caminetti e infissi dorati – e le
sale per gli incontri sono così tante e raggiungerle è un affare
così labirintico che ho interrotto due conferenze, prima di trovare
la Sala Lettori – ma perché questo luogo stupendo è a
disposizione dei lettori. Cioè, io adesso posso alzarmi, mettermi le
scarpe e andare al Circolo a leggere per i cavoli miei. C'è pure un
bar.
Ma
non sto parlando affatto del libro né della presentazione, e questo
è un male. Anche perché l'ho lasciata estasiata, e il mio commento
all'autrice è stato un allegro “È stato divertentissimo!”. E lo
è stato, davvero. Magari inizio a spiegare perché.
Intanto
denoto che a fare da spalla all'autrice, Cristina, c'era Marta
Ciccolari Micaldi, alias la McMusa. Ho apprezzato molto che avesse la
stessa pettinatura dell'avatar.
Un'esperta
di cultura e letteratura americana e una criminologa che dialogano,
in sostanza, di omicidi, e di come questi vengono raffigurati nelle
serie televisive; delle tante, ovvie differenze, dei delitti di
ingenuità commessi dagli sceneggiatori.
L'incontro
è iniziato con qualche informazione di base sugli studi di Cristina,
su quello che fa e non fa un criminologo. Abbiamo ricevuto qualche
informazione che sapeva di facezia, come il fatto che i bossoli in
lavatrice rendono i jeans più lisci, e tolgono pure i pelucchi; il
fatto che il 2% della popolazione non lascia impronte digitali, per
una questione di ph della pelle; o il fatto che 8000 persone all'anno
muoiano per incidenti domestici, a fronte delle “sole” 500 morti
violente; la differenza abissale tra le stazioni di polizia
statunitensi come le vediamo nelle fiction – praticamente basi NASA
lucide e super-tecnologiche – e la stazione di polizia di NY
visitata da Cristina, che ce l'ha descritta come “la più scrausa
in cui sia mai stata.”
C'è
stato poi un salto nella conversazione, e non saprei dire quando sia
avvenuto. Forse è stato più un lungo passo che un salto, cosicché
non mi sono neanche resa conto della svolta presa dalla
conversazione. Cristina ha iniziato a raccontare più specificamente
del lavoro del criminologo, e dei falsi miti sparsi dalle sempreverdi
serie televisive.
Il
criminologo non si reca, ad esempio, sulla scena del crimine. Il
criminologo arriva quando non c'è più niente da fare, e la sua è
un'opera di ricostruzione, quasi di fantasia. Ho molto gradito
l'osservazione della McMusa, del legame tra finzione narrativa e
ricostruzione del delitto. Il profiler, dopotutto, deve ricrearsi un
personaggio credibile partendo dai dati che ha disposizione, e
arrivare così a capire quali siano state le dinamiche del crimine e
il relativo movente. Il vero criminologo, ha spiegato Cristina, parte
dalla statistica, e cerca di scoprire la verità calcolando la
probabilità che qualcosa accada in uno specifico modo. Mentre la
finzione si incanala in binari di senso compiuti, in linee narrative
tracciate da uno o più autori, il criminologo nella realtà deve
fare i conti con la fantasia umana, e quella non ha limiti. Deve
quindi cercare di restringere il campo a quello che è plausibile,
iniziando dai dati certi che ha a disposizione. Dalle ferite inferte,
dalla scena, dal contesto in cui viveva la vittima. Nella stragrande
maggioranza dei casi gli omicidi sono compiuti da conoscenti, da
persone vicine alla vittima. Ed è stata fatta notare anche un'altra
cosa parecchio interessante: le fiction mentono sulla vittima. O
meglio, più che mentire, ne danno una versione fittizia, più
narrativamente appetibile, e finiscono per dimenticarla. Nelle serie
televisive non c'è spazio per la vittima, se non in pochi casi
specifici.
Ad
esempio, ieri ho imparato che nella realtà le vittime non urlano.
Prima di un'aggressione non si urla, ma ci si prepara alla lotta, e
il corpo inizia a incamerare energia per difendersi. Ho imparato
anche che in America c'è una percentuale altissima di crimini
irrisolti, perché là non è uso attingere dalle casse pubbliche per
svolgere i più banali esami tossicologici sulle vittime. Ho imparato
che a volte la giustizia si incaglia nell'indifferenza di chi non
vuole proseguire indagini su casi più che sospetti, e che si può
effettivamente sciogliere una persona nell'acido. Che ci sono
rilevanti differenze statistiche sui luoghi e sui metodi che una
persona sceglie per morire, a seconda del sesso.
Un
aspetto che ho particolarmente gradito dell'incontro, e che dal mio
resoconto non sta affatto venendo fuori, è la leggerezza con cui
ogni argomento è stato trattato. C'è stato un momento in cui
Cristina raccontava di un paio di casi su cui ha lavorato, facendo
paralleli tra le morti di due donne. Una stava facendo a pezzi una
parete con una sega circolare, quando qualcosa è andato storto e,
sbilanciandosi, si è ritrovata con l'arteria carotidea tranciata;
l'altra è stata trovata morta dal marito davanti alla porta di casa,
con la testa quasi sezionata dal corpo, sempre ad opera di una sega
circolare. Cristina ha spiegato quanto fosse probabile che la prima
rientrasse nella tragica casistica degli incidenti, e al contrario
quanto poco la seconda c'entrasse col classico suicidio. Le donne, ha
detto, solitamente si uccidono in bagno o in camera. Solitamente coi
sonniferi, o defenestrandosi. Una donna che si uccide con la sega
manomessa del marito falegname, e che sceglie di farlo davanti al
portone di casa, è un'eccezione troppo grande per non farci caso.
Peccato che il caso sia stato archiviato comunque.
E
sarete d'accordo con me, non ne dubito, nel definire “tragico” e
“terribile” questo stralcio di storia; eppure, lì per lì, se ne
chiacchierava con tranquillità, ridendo dell'assurdità di
un'indagine interrotta. Non erano risate nervose, di quelle che
nascondono il disagio. È che eravamo finiti in quel particolare
punto di unione tra morte e divertimento, perché alla fine è contro
l'orrore che serve la risata.
Mi
rendo conto, giunta alla fine di un resoconto troppo lungo e troppo
greve, di essere incapace di replicare degnamente il tono leggero e
canzonato dell'incontro. È stato divertente. Sono uscita dalla Sala
Lettori che ancora sorridevo, e avevo sentito parlare di morti
ammazzati per più di un'ora. Non ero l'unica, se questo può servire
ad allontanare da me i sospetti di sociopatia. È stato divertente
davvero, nel senso più puro del termine. Se il libro è leggero
anche solo la metà dell'incontro, penso che mi volerà in un giorno.