A
me i romanzi storici piacciono, e molto. Ma sono pure schizzinosa
all'estremo, e mi è difficile trovarli. Mi piacciono i romanzi
storici quando i personaggi sono vividi e vivi sulla carta, ma odio
quando l'autore si prende troppe libertà con personaggi realmente
esistiti. Mi piace quando un personaggio appena un minimo precursore
dei tempi mi fa assaporare appieno la stranezza di un contesto, ma
aborro quando i protagonisti sembrano essere sbucati dai giorni
nostri, con la nostra etica, la nostra ideologia e le nostre
abitudini. Quindi, beh, mi piacciono i romanzi storici ma ne leggo
pochissimi. Non mi ci so ambientare, ecco. Poi non mi interessano
granché i pettegolezzi di “chi è stato a letto con chi tra le
teste coronate”. Mi sa che preferisco i romanzi storici ambientati
nelle classi basse, nel popolino. Almeno credo.
Ad
ogni modo, quando Iperborea mi ha proposto Le api di
Meelis Friedenthal (grazie, Iperborei) i miei sensi di
lettrice si sono ringalluzziti subito. Tradotto da Daniele
Monticelli, vincitore del Premio dell'Unione Europea per la
Letteratura nel 2013 (premio che dovremmo considerare un
cicinin di più, per dire), ché mi pareva uno di quei romanzi storici
che ce la sanno ampiamente.
Dunque,
vediamo.
Scritto
in terza persona, con un paio di capitoli in prima persona che
offrono brevemente il punto di vista di un paio di personaggi che
entrano in contatto col protagonista. Stile assai piacevole, ho
apprezzato molto le descrizioni degli ambienti e delle consuetudini
dell'epoca*.
Siamo
a fine '600, e Laurentius Hylas ha ricevuto una borsa di studio per
studiare a Tartu, in Estonia. Il romanzo si apre con un Laurentius
stanco per il viaggio – è partito da Leida – circospetto nei
confronti della gente che ha intorno e con il pappagallo Clodia nella
gabbia di ferro che lui stesso ha costruito. Clodia non è soltanto
il suo animale da compagnia: essendo Laurentius una persona timida e
riservata, quello strano uccello gli torna utile per attaccare
bottone, per riempire i vuoti di una conversazione, per predisporre i
suoi interlocutori in uno stato d'animo positivo. Solo che Clodia
muore. Basta che lui la lasci in una locanda, in custodia di persone
poco edotte sulla cura dei pappagalli, che se la ritrova praticamente
mezza avvelenata, e non gli rimane che vederla morire.
Il
viaggio di Laurentius continua, tuttavia, verso Tartu. In carovana, e
poi in città. Non vado avanti a raccontare, giustamente. Ovviamente
la città viene raggiunta, così come l'università. La vita di
Laurentius in un certo modo si assesta in quella città piccola e
strana.
Questo
libro racconta moltissimo di Tartu. Della vita di tutti i giorni, di
come vivevano e pensavano i contadini, del rapporto tra studenti e
professori nelle università, dell'infiltrazione religiosa nella
scienza. Di come si veniva serviti nei caffè, di come avevano luogo
gli spettacoli teatrali. A lettura finita mi è venuto da pensare che
avrei gradito più storia, più contesto, più particolari. Eppure a
ripensarci ce ne sono eccome. Ora so che le botteghe dei conciatori
stavano fuori dalle mura cittadine; so che a fine '600 nelle
università iniziavano a prendere piede gli studi di anatomia. So che
soldati e studenti non andavano affatto d'accordo.
Però
Le api non è solo un romanzo storico. L'elemento
soprannaturale è lieve, e ci si chiede se stia germogliando nella
mente di Laurentius come una psicosi o se appartenga al mondo
“reale”, così come viene descritto nel libro. E devo dire che su
questo punto mi salgono dei dubbi sul libro. Ho avuto l'impressione
che l'autore rifiutasse di prendere una netta posizione sulla
questione soprannaturale, e che il finale abbia risposto alla domanda
con una domanda ancora più complicata. Laurentius, durante il
viaggio, viene in contatto con un odore terribile, pestilenziale, che
continua a nausearlo per tutto il libro, impedendogli di mangiare,
provocandogli incubi che rimandano al suo passato. La natura di
quell'odore, per quanto suggerita... non lo so. Scrivendone, ho
l'impressione che la natura di quell'odore sia chiara, e che in
effetti sono io a non voler accettare il suggerimento dell'autore
come una risposta precisa. Eppure sul finale ho ancora delle
perplessità.
Una
cosa che ho adorato di questo libro e di cui debbo fare cenno
assolutamente, è l'assenza del metodo scientifico. È evidente che
all'epoca non aveva ancora preso piede, e le discussioni scientifiche
nelle università erano perlopiù ipotesi valutate a seconda della
loro plausibilità del momento. Teorie bizzarre, come quella dei
corpuscoli, la questione dell'anima, spesso tirata in mezzo alle
malattie; la filosofia che si intrecciava con la medicina, Aristotele
e Platone e salassi.
Sarebbe
anche il caso di concludere, visto che sta diventando una delle
recensioni – si fa per dire – più lunghe che io abbia scritto
almeno nell'ultimo anno. In sostanza, il libro mi è piaciuto molto,
e mi trovo in totale disaccordo con la media Anobiiana. Bello lo
stile, belli i personaggi, bella l'ambientazione così come è
raccontata. L'unico fastidio che ancora ristagna è il finale, che
stento a comprendere.
*ultimamente
ho perso l'abitudine di accennare a persona e stile, che sono aspetti
abbastanza essenziali in una recensione. Fatemi notare quando manco
di farlo, così magari mi ricordo.