Le
braci di Sàndor Màrai – traduzione di Marinella d'Alessandro –
Adelphi, 1988
Ormai
ho capito che Màrai è mio. Che mi piace il filo
conduttore che lega i suoi libri, fatto di fantasmi del passato e
rimpianti, che adoro il suo stile. È uno di quegli autori di cui
poco a poco recupererò l'intera bibliografia, ma senza divorarla.
Necessita di una lettura più calma. Le braci è il secondo Màrai che leggo, il primo è stato L'eredità di Eszter, che in un certo senso ho preferito. Forse.
Ci
sono due anziani che si incontrano dopo quarantuno anni di oblio e
silenzio. Uno è Henrik, un generale dell'esercito ungherese in
pensione, nato e vissuto nella ricchezza. Accoglie nel castello che è
stato dei genitori Konrad, amico d'infanzia, che di punto in bianco,
dopo decenni di silenzio, gli manda un messaggio per annunciare il
proprio arrivo.
Il
libro è diviso in due parti. Nella prima si racconta della vita di
Henrik, della sua famiglia, della sua giovinezza e del rapporto con
Konrad. Si incontrano in collegio poco meno che ragazzini, e da
allora sono inseparabili. La loro amicizia è totale, immensa. Troppo
pura perché si possa definire “morbosa”. La seconda parte del
libro è dedicata alla cena, o meglio, alla chiacchierata che viene
dopo la cena tra Henrik e Konrad. E qui ha luogo la mia rimostranza riguardo al libro: il lungo monologo
di Henrik, pomposo e ripetitivo, inframezzato da pochissimi
interventi di Konrad. E in questo monologo racconta molto, e di certo
lo stile di Màrai rimane bellissimo, ma mi sono trovata a saltare
due-tre righe per volta.
Durante
questa chiacchierata – che è più un monologo, ma chiamiamola
chiacchierata – si scoprono le ragioni che hanno portato questi due
amici così stretti a non vedersi per quarantun anni. E onestamente
la ragione mi è piaciuta, mi ha convinta. Tutto quello che c'è
dietro, il nugolo di emozioni inespresse.
È
un romanzo bello, e monologo a parte si legge benissimo. Scivola,
incanta.
Ma
diamine, quel monologo.
Purgatorio
di Tomàs Eloy Martìnez – traduzione di Francesca Lazzarato –
Sur, 2015
Non
so se cominciare ringraziando Francesca di Il club dei libri che me
l'ha 'sì carinamente prestato o se iniziare subito parlando
dell'Argentina. E della mia famiglia in Argentina. Dei nonni che sono
fuggiti appena in tempo da Buenos Aires, con zia tredicenne e madre
che aveva sei anni. Di nonno che altrimenti sarebbe finito malissimo,
perché nonno riesce sempre a tirarsi addosso qualsiasi magagna. Tipo
il fatto che era fuggito in Argentina perché finita la guerra, da comunista, era
riuscito a entrare nella lista nera del partito. E sulla nave per
l'Argentina ha partecipato a un ammutinamento. E mentre era in
Argentina, ha avuto un puma come cane da guardia. Mio nonno è un
figo, approfitto di ogni possibilità per vantarmene.
Dicevo,
l'Argentina. Questo libro parla di uno di un orrore strano. Qui in
Italia i fascisti impiccavano i partigiani in strada, i corpi
penzolavano dai lampioni, così che tutti potessero prendere
l'esempio. In Argentina le persone sparivano e basta, senza lasciare
traccia. I desaparecidos.
C'è
Emilia, una donna di sessant'anni, che dall'Argentina si è
trasferita in America. Lavora come cartografa, non ha una grande vita
sociale. Ha un'amica un po' tonta e conosce... beh, l'autore del
romanzo, lo stesso Martìnez, pare. Il libro rimpalla tra la
narrazione consapevole di Martìnez e il racconto di quanto avviene a
Emilia.
Emilia
ha sessant'anni e un marito scomparso trent'anni prima. Si chiamava
Simòn, lavorava anche lui come cartografo. Nonostante un processo e
i testimoni che lo vogliono morto, ucciso con una pallottola in
fronte, Emilia non si è mai arresa. E a sessant'anni, negli Stati
Uniti, lo vede. È in un bar e chiacchiera con due tizi. È Simòn,
ma non è invecchiato di un solo giorno dagli anni '70.
Questo
libro lascia addosso strascichi di malinconia e di... come dire,
straniamento. Saranno tutte quelle chiacchierate di Emilia e Simòn sul tempo, sulle mappe, sui luoghi che non esistono. Un pomeriggio, nel periodo in cui ero più o meno a metà del libro, dovevo vedermi con un'amica in centro. E mentre la aspettavo ho avuto un attimo stranissimo di perdita e di onniscienza. La piazza con la fontana era ancora la piazza con la fontana, ma non era quella piazza con la fontana. Capivo Simòn, capivo Emilia. Capivo la geologia di Marte, capivo le correnti fluviali, capivo e basta.
Poi è arrivata la mia amica e mi sono scrollata Purgatorio di dosso.
Però ecco, è un libro che ti si avvolge attorno come una ragnatela, pure se non te ne accorgi subito.
Ho tralasciato la questione storica, il contesto sociale che viene dipinto, il modo in cui i perché si dipanano. Sono elementi presenti, sempre. Però a me è rimasta soprattutto la malinconia.
Ho tralasciato la questione storica, il contesto sociale che viene dipinto, il modo in cui i perché si dipanano. Sono elementi presenti, sempre. Però a me è rimasta soprattutto la malinconia.