Le
stagioni di Zhat di
Sonallah Ibrahim, edito da Calabuig nella traduzione di
Elisabetta Bartuli. Libro che mi incuriosiva un sacco e che
mi è giunto in gentile omaggio direttamente dall'editore, che ivi
ringrazio.
Dunque,
vediamo. Le stagioni di Zhat è un libro particolare. Come stile,
come approccio nei confronti dei personaggi e soprattutto
nell'alternarsi dei capitoli. Inizio proprio da lì, da quel tot di
pagine che riempiono il salto da un capitolo all'altro di stralci di
titoli e articoli giornalistici, accuratamente scelti dall'autore per
dare un'immagine chiara e avvilente dell'Egitto che va all'incirca
dagli anni '60 a fine '80. Si tratta di un insieme variegato di
notizie che raccontano i lati più assurdi della società egiziana,
della sua politica, della sua economia, con un focus importante sulla
sua corruzione e sulle assurdità burocratiche. Ma si parla anche di
noi, dell'Occidente, soprattutto degli USA e del comportamento
finanziariamente predatorio che hanno tenuto nei confronti
dell'Egitto e che essenzialmente hanno fomentato la sua sudditanza
economica. Grazie, USA. No, ma aderiamo pure al TTIP, c'è da fidarsi
come non mai. Tra due guanciali. Minati.
Ammetto
che non so bene come pormi di fronte alla scelta di inframezzare i
capitoli in questo modo, fornendo lunghi elenchi di notizie senza
integrarle direttamente nel testo. Certo, si capisce che sono quelle
notizie a determinare la condizione socio-economica del paese, e
sarebbe risultato assolutamente forzato inserirle a forza nelle
giornate di Zhat e 'Abdel Meghid. Tra l'altro si tratta di notizie
che, personalmente, ho trovato interessanti, e di cui sono lieta di
essere venuta a conoscenza, perché sono utili per districare la
situazione dell'Egitto odierno. Però, da un punto di vista puramente
narrativo, non so bene cosa pensarne.
Ad
ogni modo, questo libro parla di Zhat. È una donna egiziana, che
all'inizio del libro si è appena sposata con 'Abdel Meghid, col
quale si è trasferita in una zona che, in quegli anni, pare davvero
promettente. Zhat non è particolarmente intelligente, né
particolarmente simpatica, né particolarmente forte. È una persona
irrevocabilmente nella media, e la sua vita scorre in modo piuttosto
comune, seguendo tappe ben definite. Lavora nell'archivio di un
giornale e non sta affatto simpatica alle sue colleghe, che per anni
portano avanti nei suoi confronti un aperto boicottaggio. Fa dei
figli, due femmine e per ultimo un maschietto, il cosiddetto “erede”.
Ha qualche rapporto col vicinato, il matrimonio col 'Abdel Meghid non
è dei migliori, e pure lui comunque pare il prototipo dell'uomo
medio.
Insomma,
la vita di Zhat non ha nulla di particolare. Scorre tra delusioni e
speranze, desideri e rinunce. Ed è questo che voleva Ibrahim,
raccontare la vita di una comune donna egiziana per raccontare
dell'Egitto tutto.
Lo
fa in uno stile particolare, che mi ha ricordato fin dalle prime
pagine Zazie nel metro di Raymond Queneau. Me l'ha
ricordato anche per il modo in cui sfiora i personaggi e li mette al
centro dell'attenzione per poi abbandonarli. Un'attenzione spartita
democraticamente, e che tuttavia non va mai a fondo. Devo ammettere
che non sono riuscita a empatizzare molto con Zhat, come non sono
riuscita a farlo con Zazie. Mi è rimasto un vago senso di distanza
nei confronti dei personaggi. Forse dipende dal fatto che proseguono
nelle proprie vite senza darsi una meta precisa, un fine, un punto da
raggiungere. La trama dopotutto è quella. Zhat va avanti
strascicando i passi, e l'Egitto con lei.