Chiamate
la levatrice di
Jennifer Worth, edito da Sellerio
nel 2014 nella traduzione di Carla De Caro. In tutta
sincerità, non so bene come iniziare a parlarne. È bellissimo, mi è
piaciuto un sacco, e ho punteggiato la lettura con occasionali
sortite su facebook per poterlo affermare pubblicamente, quanto mi
stesse piacendo. È che poi ti trovi a dover spiegare il perché ti
sia piaciuto tanto, e non sai se riuscirai a spiegarlo.
Intanto,
occorre dire che per la scrittura di questo libro l'autrice si è
ispirata alle proprie esperienze come infermiera e levatrice negli
anni '50. È Jennifer protagonista e voce narrante. Cosa sia vero e
cosa sia inventato non è dato saperlo. Per il buon fine della
narrazione, a me personalmente interessa meno che niente.
Jennifer
è una giovane infermiera che vive a Nonnatus House, un convento di suore levatrici
che in quegli anni si erano accollate il peso dei parti nelle zone
più povere e malandate di Londra. Inforcano le biciclette, tenendo
il borsone con gli attrezzi in bilico e vanno di casa in casa,
seguendo un rigido programma che permette loro di seguire donne
gravide, malate, o di tenere d'occhio una gravidanza che pare priva di complicazioni, ma chi può dirlo, meglio controllare spesso. Vanno per i docks, parlano cockney, i loro
assistiti sono spesso agli ultimi gradini della società. Famiglie
rumorose, numerose, povere e talvolta disgraziate. Altre, no. Altre
volte sono famiglie belle, magari un po' a corto di denaro, ma belle.
E
questo libro è una gita nella Londra di quel periodo. Lo spartiacque
tra il mondo di oggi, fatto di ospedali lindi e personale inamidato
alla portata di tutti, e quello in cui le cure di un dottore erano
troppo costose perché tutti potessero permettersele, e si preferiva
ricorrere alle cure delle levatrici di quartiere. È tutto raccontato
con leggerezza, con confidenza. Sembra di essere seduti accanto alla
Worth, di bere tè troppo forte mentre lei, vestita a festa,
racconta di quella volta che ha dovuto assistere a un parto di
traverso, di quella donna alla ventiquattresima gravidanza, di quando è
entrata per la prima volta nell'appartamento di Mrs. Jenkins. Si
avverte una sensazione di vicinanza con la voce narrante, che sembra
quasi fisica.
È
strano definire “allegro” un libro in cui compaiono occasionali
disgrazie, in cui viene raccontato l'orrore degli ospizi per i
poveri, la disperazione delle prostitute. Eppure è allegro, forse
perché la protagonista non aveva tempo per spargere lacrime sulle
altrui sventure, doveva rimboccarsi le maniche, rinunciare a un'altra
notte di sonno, saltare sulla bici e andare a visitare un'altra
famiglia. Ed è bello, in un certo senso, che sia dato ampio spazio
alle cose belle, oltre che a quelle tragiche. Che ci sono, va bene,
ma sembrano finire tutte con l'esortazione ad andare avanti, anche
senza dimenticare.
Ci
sono tanti personaggi, qui. Ci sono Trixie e Chummy, le colleghe
infermiere che non potrebbero essere più diverse tra loro. Qualche
scorcio di Jimmy, l'amico d'infanzia di Jennifer. Ci sono i pazienti,
i tantissimi pazienti. E poi ci sono le suore, le meravigliose suore
presso il cui convento vive Jennifer. È stato strano adorarle, visto
che ho frequentato l'asilo dalle suore e ne conservo un ricordo
abbastanza orrido.
Quindi,
beh. Com'è ovvio che sia, consiglio caldamente di leggere questo
libro. Ci sono svariati motivi per farlo. Per conoscere la Londra dei
docks, la Londra degli anni '50, la Londra delle infermiere e delle
levatrici. Per il buonumore, le risate, per Chummy in bicicletta e
per Sorella Evangelina. Non so con quali altre parole dire quanto mi sia
piaciuto.
(diamine,
voglio il seguito.)