Dunque,
Tanto gentile e tanto onesta di Gaia Servadio, edito da Sonzogno, la
quale (grazie!) me ne ha fatto omaggio qualcosa come un mese e mezzo
fa. Cosa che mi fa sentire orrendamente in colpa per averlo letto con
tanto ritardo, ma soprassediamo.
Parto
con un'osservazione generica sul mercato editoriale italiano, non
tanto polemica quanto curiosa. Mi chiedo sinceramente perché, tolti
pochissimi eletti, siano così pochi gli autori nostrani degli anni
'60-'70-'80 a non essere ancora finiti nell'oblio del fuori catalogo.
Perché ce ne ricordiamo così pochi, perché vengano così poco
pubblicizzati. Per dire, Tondelli. In biblioteca ci sono due copie
marce dei suoi libri, eppure so che è stato una voce importante, e
che dovrei averne letto qualcosa. Chi rimane, di quel periodo,
conosciuto e apprezzato? Cassola? Buzzati? E poi? Calvino non lo
contiamo, dai, lui è un'altra storia. Non so, vorrei dire
che un po' mi spiace che l'attuale situazione editoriale tenda a cancellare,
sicuramente senza premeditazione né intenzione, quelli che adesso
sarebbero classici, perché non c'è dubbio che ci stiamo perdendo
delle letture ganze.
Tutto
questo preambolo per dire che sono veramente lieta che la direttrice
della collana Bittersweet, Irene Bignardi, abbia deciso di ripescare
Tanto gentile e tanto onesta per riportarlo alla luce a quasi cinquant'anni dalla prima edizione.
Non
ero certa che fosse nelle mie corde, non lo sono stata per le prime
pagine. Mi incuriosiva, e per questo ho deciso di provarlo, eppure
non ne ero sicura. Forse è per questo che l'ho lasciato in fondo
alla pila di lettura per così tanto tempo. Poi sono passate le prime
pagine e... beh.
All'inizio c'è
Melinda, questa ragazzina di tredici anni decisa a sedurre chiunque
le stia intorno. Compreso lo psicanalista freudiano, svariati
colleghi e amici del padre, l'editore Abramo Publishing, il fratello Medoro, il padre
stesso. È estremamente carina e capace di piacere a tutti, perché
ha capito che per riuscire graditi basta fingere interesse per le
persone che si hanno davanti. E dunque rimane incinta – chissà di
chi – e si sposa giovanissima, poi divorzia e si trasferisce in
Inghilterra e... onestamente sarebbe improbabile fare un resoconto
plausibile di tutto quello che Melinda riesce a combinare nel corso
del romanzo. Di tutto. Veramente di tutto. Ed è più o meno dal momento in cui arriva in Inghilterra che ho iniziato ad adorarla.
Il
fatto è che Melinda si annoia facilmente. Vive nel credo di “Libiam
ne' lieti calici”, ha come unico fine il divertimento, pare priva
di sentimenti. Ed effettivamente è anche la sua mancanza di
sensibilità a conferirle fascino, perché la rende onesta fino
all'offesa. Verso la fine del libro pronuncia il suo motto, che lì
per lì mi ha fatto sorridere.
“La
questione è essere belli, e divertirsi sempre”.
Melinda è tutta
lì. Splendida e sorridente, e allo stesso tempo spietata. Capace di
una crudeltà vera e letale, di cui dà mostra in svariate occasioni,
eppure con una leggerezza e una tranquillità che pare forzato
definirla “cattiva”.
Questo
libro è la storia della sua vita. Vissuta sempre in moto, sempre in
viaggio, da un marito all'altro, da un incarico all'opposto, sempre
in fuga dalla noia. Scritto in terza persona, ogni avvenimento, dal
più lieve al più turpe, è raccontato con leggerezza.
Certo,
si potrebbe ipotizzare un tentativo di analisi psicologica di
Melinda. Nel fatto che cerchi esclusivamente amanti che rispondano
alle caratteristiche del padre, quindi anziani uomini di cultura o
ragazzi giovani e femminei, spesso omosessuali. Nella sua ricerca di
una felicità definitiva in matrimoni difficili da contare, nella sua
decisione di appropriarsi di un amore che dall'esterno pare un
orgoglioso surrogato.
Ma perché, poi?
Melinda
è Melinda e basta, impossibile da capire. Dorme bene, non ha rimpianti, ma
c'è quella noia che la rincorre, e la fa turbinare da una vita
all'altra.
Prima
di concludere – che la sto tirando un po' per le lunghe – vorrei
fare cenno a qualcosa che capita verso l'ultima parte del libro.
Nella trasformazione di alcune scene in scene teatrali, che poi
diventano ancora più decisamente un discorso meta-narrativo in una
maniera che personalmente ho gradito moltissimo. Mi
è piaciuto come questo libro ha saputo confondermi, qua e là, tutti
quei “ma che diavolo...?”. Vorrei che accadesse più spesso.
Non è perfetto, non voglio dare
l'impressione che lo sia. Ho letto diverse critiche, e non credo sia
un libro universale. Ad esempio, a volte la Servadio si dilunga
eccessivamente. E di certo non ha pretese di realismo, visto che cade
volutamente nell'improbabile e nell'assurdo. Melinda non è un
personaggio che possa piacere a tutti, credo. Non saprei, perché io
l'ho adorata.
Ad
ogni modo, a me è piaciuto moltissimo, e la lettura è stata molto
più serrata di quanto non mi aspettassi. Quindi sì, lo consiglio.
Soprattutto a chi gradisce un umorismo un po' british e un po'
assurdo.