Internet
Apocalypse di Wayne Gladstone – traduzione di Veronica La
Peccerella – Multiplayer.it Edizioni, 2014
Ho
finito di leggerlo una mezzora fa, e ancora mi viene da inclinare la
testa da un lato e pormi mille domande, cui giustamente mi è
impossibile dare risposta senza l'inserimento di ulteriori dati.
Sicuramente è un libro ganzo, politicamente scorretto, divertente,
assurdo. L'ambientazione, la New York senza Internet, è fantastica.
Gruppi di zombie affamati di contenuti, le riunioni di 4chan, qualche
pillola di Anonymous, un oracolo che si fa chiamare Jeeves. Le
chicche sono tante, e le ho gradite un sacco. La storia è quella di
un terzetto che va alla ricerca di Internet dopo la sua improvvisa e inspiegabile scomparsa.
C'è Wayne Gladstone che lo racconta i prima persona, in una specie
di diario, c'è l'amico blogger eminentemente stupido Tobey, c'è una
ventiquattrenne australiana che la scomparsa della rete ha reso
disoccupata, visto che il suo lavoro consisteva nel farsi la doccia
in cam. Un viaggio a tappe, per le varie stazioni dell'Internet, che
in qualche modo sono riuscite a riorganizzarsi "irl". E questo è
immensamente ganzo.
Eppure
non so decidermi sul finale. Non capisco se sia ganzo o meno, se sia
del tutto “giusto”. Da un lato l'ho adorato, dall'altro non lo
so. È molto classico, in un certo senso.
Una
cosa che non ho gradito è il fatto che Gladstone abbia
voluto mettere troppo di se stesso in questo libro. Tralasciando l'evidente fattore autobiografico, ecco. Personalmente
trovo fastidioso quando quella che dovrebbe essere una storia diventa
un veicolo attraverso il quale l'autore mi lancia addosso quello che
pensa, pure quando sono sostanzialmente d'accordo con lui. Ci sono
quel tot di dialoghi e di situazioni cuciti addosso a certe
affermazioni, che sembrano create all'unico scopo di rendere
plausibile il loro manifestarsi, ecco.
Ma
rimane ganzo, veramente ganzo. Nonostante l'ingenuità della strada
intrapresa dalla trama e dai personaggi, nonostante le battute
forzate. Anzi, forse anche grazie alle battute forzate. Di certo non
è il tipo di libro che richiede una puntigliosa accuratezza
situazionale e caratteriale, anche se ogni tanto avrei gradito un po'
più di coerenza.
Il
Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald – traduzione di Tommaso
Pincio – minimu fax, 2011
La
seconda volta è stata quella buona. Avevo già provato a leggere
questo libro, ma in un'edizione pessima che ho dovuto chiudere
intorno a pagina 20 per l'orridume della traduzione. Rileggendola in
questa versione, mi è sembrato di leggere una storia totalmente
diversa. Sul serio.
E
dunque, che dire che già non si sappia? È la società americana
degli anni '20, prevalentemente alta, spogliata dagli occhi del narratore, Nick Caraway, la
cui casa si pone a metà tra quella di Jay Gatsby e quella di Tom e
Daisy Buchanan. Gli occhi di Nick che osservano Gatsby con un misto
di curiosità e condiscendenza, e guardano con pena il legame dei
coniugi Buchanan. Daisy è una vecchia amica di Nick, una ragazza
stupenda e frizzante, adorabile in ogni contesto, di cui Gatsby si è
invaghito da giovane, e di cui si è creato un idolo col passare
degli anni.
E
già dopo queste poche righe mi trovo praticamente senza parole. Cosa
si può dire, sul serio, di Il Grande Gatsby? Di un eroe romantico
arrivato in ritardo nella letteratura come nella sua storia? Della
società dell'epoca, disossata da Fitzgerald, che pure ne faceva
parte?
È
uno di quei libri che vanno letti, senza se e senza ma. E sono
davvero contenta di essere riuscita a farlo senza sapere quasi nulla
della trama. Solo il nome di Daisy, e la cieca adorazione di Gatsby.