Non
avevo mai letto nulla di Barnes, e quando ho preso questo libro ignoravo che fosse il suo titolo più famoso, anche se non penso che sia il più
amato. Lo dico perché dopo averlo divorato in una sera e averne
cantato le lodi, mi sono arrivati un po' di pareri contrastanti. C'è
chi in questo libro non ha visto nulla, non abbastanza, almeno. Io ci
ho trovato... non lo so. Un bel po' di cose, credo. Tanta angoscia,
sicuramente.
Dunque,
Il senso di una fine di
Julian Barnes, tradotto da Susanna Basso e edito da
Einaudi nel 2012. Preso in
biblioteca, e scelto perché... beh, era l'unico di Barnes, e volevo
leggere Barnes. Era anche l'ora, no?
È
un libro breve, e la storia è di un'apparente semplicità che
impedisce di trattarne a lungo. C'è il protagonista, Tony, che dal
presente della sua mezza età inizia a ricordare e a raccontare di
alcuni stralci della sua vita, che inizialmente non è chiaro dove
vogliano andare a parare. Che ci sia un'asse preciso attorno al quale
ruotano si capisce dopo un po'. Inizia dalla sua adolescenza a scuola
insieme a un gruppetto di amici di cui fa parte Adrian, un ragazzo
abbastanza intelligente da sfiorare il genio. Le lezioni di storia,
le chiacchierate tra amici, i loro passatempi. E poi giunge
l'università, la sua relazione con Veronica. E poi una tragedia che
piomba tra le pagine così inaspettata da sbalordirmi, e lasciarmi
più dolorante di quanto non sarei stata, se avessi saputo qualcosa
sulla trama di Il senso di una fine.
Eppure
il centro del romanzo non è neanche la tragedia. Non è neanche la
storia in sé. Non è in Tony, né nel mondo che lo circonda, né nei
suoi ricordi. Forse non è neanche, come pensavo, nell'angoscia che
sa dare una perdita inutile e inevitabile, la sensazione che
allungando la mano, o con la forza di una parola appena, avresti
potuto cambiare qualcosa, rimettere a posto le cose lì dove il tempo
si è spezzato. Certamente l'angoscia è parte del romanzo, e mi ha
colpito così profondamente che arrivata a un certo punto non ero
certa di riuscire a continuare. Ci sono “e se” che fanno più
male di un punto esclamativo su mare di croci.
Ma
dicevo, non credo più, come pensavo a pochi giorni dalla lettura,
che il fulcro del romanzo sia l'angoscia del dubbio. Credo che sia la
parzialità con cui ricordiamo, il modo con cui ricostruiamo la
nostra vita adattandola al nostro punto di vista, facendo in modo da
risultare, ai nostri stessi occhi, gli eroi di ogni
vicenda. La vita di Tony rispetto all'idea che Tony si è fatto della
propria vita.
E
dunque... beh, io questo libro l'ho adorato, per tutto quello che è
e contiene. E lo consiglio un sacco.