È
passato un po' di tempo, dall'ultima volta che ho postato qui un
racconto, e anche dall'ultima volta che ho finito di scriverne uno.
Il trucco sta nel fatto che questo non è proprio un racconto singolo, ma il
primo passo di una serie di racconti che da diverso tempo mi si arrovellano in testa.
Ma non ha senso perseguire nel cincischiare.
Ho
fatto del mio meglio per vestirmi all'altezza della situazione. Ho
riesumato il vestito azzurro che indossavo il giorno della laurea, ho
chiesto alla mia coinquilina di truccarmi, ho passato una buona
mezzora a passarmi la piastra tra i capelli. Non dubito di avere
un'aria seria e sofisticata, da giornalistica competente abituata a
pranzi di lavoro coi lord come alle zone di guerra in Medio Oriente.
Eppure non posso fare a meno di sentirmi mortalmente in imbarazzo. Di
certo non aiuta l'ambiente, austero fino all'inverosimile. I soffitti
alti, la carta da parati scura, il mobilio secolare infestato di
polvere e lutto. Sospiro, e spero che non lo noti. Resto immobile,
col mio sorriso accomodante, la penna immobile sul foglio nonostante
il registratore appoggiato sul tavolo di legno scuro. Nella mia mente
ripasso i mille modi in cui potrei iniziare a comporre l'articolo.
Dagli occhi del dottore che evitano i miei come se ne andasse
dell'intero universo? Del maggiordomo che mi ha accompagnata in
questo salotto gelido, la cui pelle ingiallita lasciava tirava sulle
ossa puntute? Oppure potrei partire dal mio viaggio in macchina per
raggiungere il castello, la difficoltà nel trovare un sentiero
inghiottito dalla foresta, del terreno incolto che lo circonda, delle
sue mura divorate dall'edera e dal muschio. Non posso sbagliare
l'incipit, con quest'articolo. È l'articolo perfetto, una delle
interviste più succulente che mi siano mai capitate, e andrà a
introdurre quella che spero diventerà una rubrica fissa. La mia
grande occasione.
Certo,
non si può dire che lui stia collaborando. Non mi sarei mai
aspettata di trovarlo in questo stato. Me lo figuravo nervoso, anche
nevrotico. Schiacciato dalla colpa, con gli occhi che saettano da un
punto all'altro della stanza, incapace di nascondere il delirio di
onnipotenza che deve averlo portato nella sua attuale condizione di
eremitaggio. Immaginavo – e speravo – che il nostro incontro
avrebbe avuto luogo in un sotterraneo rigonfio di ampolle piene di
liquidi misteriosi, di macchinari dalla forma antiquata e l'uso
sconosciuto, potevo già vederlo che allargava le braccia orgoglioso
per mostrarmi tutto ciò che era riuscito a conquistare negli anni.
E
invece mi trovo a intervistare un'ombra, in un salotto polveroso non dissimile da quello di mia nonna. Gli occhi cerchiati, i
capelli scuri pettinati in fretta e furia, come se la mia visita lo
avesse colto impreparato, nonostante ci fossimo accordati per
telefono già una settimana fa. È ansioso, ma non ha voluto
sottrarsi alle mie domande. Si sente solo. Eppure, ed è questo che
mi sconcerta, guardo le sue mani e non riesco a capacitarmi di quanto
siano belle e ben curate. La pelle appare soffice, liscia, anche se
pallida d'un pallore da recluso. Le unghie sono tagliate con
precisione millimetrica, rosee, arrotondate sulla punta. Non sono le
mani di uno scienziato. Non ci sono macchie sulla pelle, né
d'inchiostro, né di agenti chimici. Sto guardando le mani di un
genio immobilizzato, di un folle in catene.
<<Quando
si sentirà pronto, e voglio che sappia che non è obbligato a
rispondere a nessuna delle mie domande, vorrei che mi raccontasse
qualcosa di lei.>>
Cerco
di parlargli con voce rassicurante e compartecipe. Spero che il
sorriso sul mio viso appaia dolce e caloroso quanto vorrei, anche se
la sua vista mi fa girare la testa. Mi sembra quasi di poter sentire
la conta di cadaveri che ha provocato esalare dalla sua pelle
diafana.
Si
sposta sulla poltrona, per mettersi più comodo. Si porta una mano
alle labbra, le accarezza per un istante come se volesse stimolarle a
produrre un suono.
<<Io
– ha la voce roca di chi non è più abituato a parlare – non
ricevo molte visite. Mi scuso per il mio aspetto trasandato. Devo
avere perso lo scorrere del tempo.>>
Allargo
il sorriso di rimando.
<<Ho
pensato che fosse la volta buona per potermi difendere dalle accuse
che mi vengono rivolte, e che anch'io mi sono rivolto. Diverse
volte.>>
<<Rimpiange
di essersi addossato ogni colpa?>>
Accenna
un piccolo sorriso. Ha le labbra sottili e la bocca piccola, e
l'effetto è buffo. Se non fossi a conoscenza di quello che ha fatto,
mi farebbe tenerezza.
<<A
volte. - ammette – Sono riuscito a rinchiudermi in un lutto
infinito, dichiarandomi colpevole di ciò che ho fatto, e che non ho
fatto.>>
<<Ecco,
parliamo di quello che ha fatto.>>
<<Quello
che ho fatto.>> sussurra, piantando lo sguardo fuori dalla finestra.
I vetri sono sporchi e opachi, e mi chiedo se il maggiordomo che ho
visto sia l'unico abitante di questa dimora immensa, a parte il
dottore <<Quello che ho fatto.>>
<<Ho
creato la vita, ecco quello che ho fatto. E la morte, per simmetria.
Ho creato un mostro, e ho finito per diventare tale. Io sono
fuggito, e lui mi ha dato la caccia. Finché, ovviamente...>>
S'interrompe,
e per un minuto buono attendo che continui a parlare. Giunge da fuori
un gracchiare di cornacchie e per il resto regna il silenzio. Ne
approfitto per scarabocchiare velocemente, sulla pagina appena
scribacchiata del bloc-notes, il suo abbigliamento, e la posizione in
cui si è pietrificato. Un completo di velluto nero, una camicia
ingiallita dagli anni, di stoffa spessa, coi bottoni in madreperla.
Un panciotto scuro, tra il marrone e il nero. Tutto in lui risulta
ingrigito, come se qualcuno gli avesse spolverato addosso manciate di
polvere fino a ricoprirlo interamente.
<<Mi
perdoni, stava dicendo?>>
Si
volta verso di me all'improvviso, facendomi sobbalzare. Sulle labbra
gli aleggia un sorriso piccolo, ingenuo.
<<Stava
parlando lei. Mi stava raccontando...>>
<<Non
ricordo di cosa stavo raccontando. Del Mostro, immagino. Del mio
Mostro.>>
<<Il
suo mostro>> ripeto <<Cosa può dirmi di com'è nato? C'entra
forse il galvanismo, come riportano le teorie più accreditate?>>
<<Mia
cara signorina...?>>
<<Vivaldi.
Agata Vivaldi.>>
<<Mia
cara signorina Vivaldi, ciò che è morto deve rimanere morto. Mai
più dovrà essere tentato un processo di rianimazione di quanto
volge verso la decomposizione. Le modalità con cui ho giocato con
la morte, battendola sul suo campo, moriranno con me, scenderanno
con me nella cripta di famiglia. Non mi faccia di queste domande, la
prego.>>
<<Ho
voluto provare. Sarebbe stato uno scoop.>> sorrido, cercando di
farmi perdonare da questo pazzo ampolloso.
<<Legittimo.
Legittimo.>>
Torna
a voltare la testa di lato, come se qualcuno lo stesse chiamando dal
giardino. Stringe le mani sui braccioli della poltrona, e pare per un
attimo in procinto di alzarsi. Apre la bocca, la richiude. Mi vengono
i brividi a dividere la stanza con lui, e questo mio timore mi fa
paventare per gli incontri che mi aspettano per le prossime
settimane. Deglutisco il disagio, pesto col piede sul pavimento, e
lui sussulta.
<<Molti critici
hanno ravvisato molteplici chiavi di lettura per interpretare la sua
triste vicenda>> lo incalzo, per tenerlo ancorato al presente <<C'è chi parla di vincita della scienza sulla natura, chi parla di
un'incarnazione in lei del divino, per il modo in cui ha scelto di
creare la vita per poi abbandonarla.>>
Il
dottore inclina la testa da un lato, come se cercasse di fare uscire
dell'acqua che gli è entrata in un orecchio, e mi fissa senza fare
cenno di volermi rispondere.
Abbasso
lo sguardo sulla lista di domande che mi sono appuntata nel corso
degli ultimi mesi, dopo avere riletto più volte la storia del
dottore e del suo disgraziato mostro, e mi chiedo se riuscirò a
ottenere almeno una, e dico una, risposta che valga la pena di
trovare stampata su _________.
<<Molti
si chiedono>> ricomincio, rifiutando la sconfitta che mi pare
evidente negli occhi vacui di Victor Frankenstein <<Come mai abbia
finto la morte. È stato per ingannare il mostro e costringerlo al
suicidio? O si è trattato di una macchinazione narrativa?>>
Lui
alza una mano diafana, e la volta per osservarne le unghie. Sembra
quasi perplesso di quanto vede.
<<Morto.>> ripete, rotolandosi la parola in bocca <<Morto.>>
Mi
chiedo cosa potrei aggiungere per convincerlo ad aprirsi, o per
aprirgli uno spiraglio nella testa dal quale possa passare un
briciolo di consapevolezza, quando la porta del salotto si apre, e il
maggiordomo fa il suo ingresso, più patibolare che mai.
<<Padrone>> ha una voce dolce, paterna <<Sono le cinque, dovete prendere
le vostre medicine.>>
<<Sono
le cinque.>> ripete il dottore, annuendo <<Le medicine.>>
Si
alza, passandomi accanto senza vedermi, ed esce dalla stanza sotto lo
sguardo attento del maggiordomo. Quello mi fa un cenno, anche se non
sono certa di cosa possa significare. Di aspettare, di andarmene? Ma
non dice nulla, scompare insieme a Victor e io non faccio in tempo a
chiedere chiarimenti.
La
porta si chiude lasciandomi sola, e io mi rilasso contro lo schienale
della poltrona, lasciandomi andare a un sospiro di sollievo, inalando
polvere e peli di gatto.
Checché
se ne possa dire, l'uomo che è stato Victor Frankenstein, lo
scienziato che ha beffato Dio, è morto e sepolto. Non bastano le sue
sembianze deambulanti a cancellare la sua scomparsa.
Tiro
fuori il telefono dalla tasca e inizio a scrivere un messaggio al mio
caporedattore. Non credo che riuscirò a tirare fuori un articolo da
questo incontro, e onestamente mi sarebbe di dubbio gusto descrivere
il Victor che ho visto oggi. Un uomo sconfitto, in barba al suo
vecchio genio. Fosse anche solo per rispetto ai suoi numerosissimi
seguaci, preferirei stendere un velo pietoso su questo accadimento.
Sarà
ben difficile comunicarlo al capo, però. Già me l'aspetto.
“Pomeriggio
con lo scienziato pazzo, più pazzo che mai”, “Manicomio per il
creatore di mostri”. Gli articoli della nostra rivista sono ben
scritti, ottimamente argomentati, peccato per i titoli. Come si fa a
farsi prendere sul serio quando a capo del tuo reparto mettono un
cosiddetto “genio del marketing” il cui unico desiderio è fare
acquistare una rivista di letteratura ingannando le folle ingorde di
gossip?
Il
cigolio della porta mi fa scattare in piedi. È pur sempre il
tenebroso maniero della famiglia Frankenstein, non posso farci nulla
se ho i nervi a fior di pelle. Sorrido al maggiordomo che mi fa cenno
di seguirlo.
<<Il
dottore sta bene?>> chiedo, mentre ci immettiamo nel tetro
corridoio.
<<Quanto
può stare bene un'anima in pena.>> sospira l'uomo <<Avrà delle
domande da porre. Lasci che sia io a rispondere alla sua curiosità.>>
Mi
guida attraverso un dedalo di scaloni ricurvi e corridoi bui, dalle
cui pareti mi fissano arcigni gli antenati di Victor. Interrompiamo
il sonno di parecchi gatti, che ci osservano con sufficienza mentre
passiamo. Sembrano abbastanza in salute, anche se mi risulta
difficile immaginare Victor o il maggiordomo che se ne prendono cura.
Usciamo
nel giardino, o meglio, all'esterno delle mura. Difficile definire
“giardino” questa vegetazione selvaggia e straripante, al punto
da apparirmi aggressiva. Tutta tronchi che si incurvano, rami che si
protendono, erba troppo alta e troppo spessa.
<<Lui>> mi schiarisco la gola, ricomincio <<Lui per telefono mi aveva
detto di volersi difendere. Di voler dare una nuova interpretazione
alla vicenda. Sa, le accuse che gli vengono rivolte...>>
<<E
che gli vengono rivolte giustamente.>> sospira il maggiordomo, con
voce soffice.
Si
volta verso di me, mi rivolge un triste sorriso. Ha i capelli candidi
e radi, la pelle sottile e cascante. Gli occhi appannati, e vorrei
davvero pensare che si tratti di comune cataratta. La divisa è
impolverata, e sembra poter cadere a pezzi da un momento all'altro,
al primo soffio di vento. Mi chiedo se i mostri non si siano
moltiplicati, nella dimora dei Frankenstein.
<<Si
renderebbe ridicolo, se cercasse di difendersi. Non c'è scusa che
tenga, per i suoi atti. È stato un vile, ed è giusto che lo
chiamino mostro. Lui lo sa.>> incrocia le mani dietro la schiena e
storce la bocca <<Lo sa, il più delle volte. Non è sempre così
assente, è solo che... le cure lo hanno stravolto.>>
<<Era
morto.>> ripeto, come se lo stessi dicendo a Victor, di nuovo.
<<Forse.
Chi può dirlo?>> il maggiordomo sorride appena, senza guardarmi.
Scorgo
in lontananza il rosso squillante della mia macchina, una vecchia
carretta arrugginita che è riuscita a scarrozzarmi in giro indenne
per gli ultimi dieci anni. Figuriamoci che l'ho ereditata da mio
nonno. Avrei voglia di raggiungerla correndo, ma resto immobile
accanto al maggiordomo, che non apre bocca.
<<Sembra
molto affezionato a Victor. Serve la sua famiglia da molto tempo?>>
gli chiedo, sbirciando la sua reazione.
<<Non
da quanto si potrebbe pensare.>> risponde, senza guardarmi <<Ma è
passato molto tempo, sì. Molto.>>
<<Le
è mai capitato... ha mai visto il mostro?>>
<<Signorina.>> mi lancia un'occhiata delusa <<Sappiamo entrambi che il mostro è
Victor. La sua disgraziata creatura non merita un simile
appellativo.>>
<<La
sua disgraziata creatura ha ucciso delle persone. E questo lo qualifica per il ruolo di mostro a prescindere dal suo aspetto.>> faccio
notare.
Un
tonfo mi fa sobbalzare. Proveniva dall'interno della casa, forse
Victor è caduto e si è fatto male, forse uno degli scaloni è
finalmente franato sotto il peso degli anni. Il maggiordomo però non
si muove, non dà cenno di avere udito alcunché. Mi fissa come a
interrogarmi sulla mia prossima volta.
<<Ho
lasciato che lei venisse a farci visita, ma non per indagare sulla
vita del dottore.>> sospira infine <<Per metterla in guardia,
piuttosto. Se Victor è vivo, contrariamente a quanto narra la sua
leggenda, potrebbero esserci altri sopravvissuti a una penna tanto
mortifera.>>
Non
rispondo, deglutisco e basta. I suoi occhi vitrei non mi abbandonano.
<<Credete
che l'altro, se per una malaugurata ipotesi fosse sopravvissuto,
sarebbe soddisfatto di leggere della follia del suo creatore? O che
gradirebbe d'essere chiamato “mostro” su un giornale buono da
accendere la stufa?>>
L'orgoglio
di articolista mi fa fremere le labbra, ma il mio pavido cuore di
letterata mi frena. No, non gradirebbe. Ripenso alla fine che ha
fatto fare a coloro che Victor ha avuto cari, e penso a quanto sono
affezionata alla sensazione della testa attaccata al collo.
<<Victor
non è famoso come un tempo. Ha i suoi appassionati studiosi, e
altrettanto appassionati detrattori. Ma nessuno si è dato la pena
di venirci a scovare tra queste vecchie mura, negli ultimi decenni.
Si faccia un favore, non ne parli con nessuno. Scappi via, e non si
lasci inseguire.>>
<<Non
posso prometterlo.>> sussurro, affondando il primo passo in avanti.
<<Perché
è orgogliosa, e non lo ammetterà davanti a me. Ma so che in cuor suo ha già preso la decisione più
giusta.>>
Non
lo saluto, non ho frecce al mio arco e lo sappiamo entrambi. Cerco
solo di non correre, per raggiungere la macchina. E mentre giro la
chiave per metterla in moto, scorgo un'ombra scura schiacciata contro
una finestra del maniero. A ripensarci, credo di aver percorso tutto
il sentiero in retromarcia.