Scribacchio,
come si può facilmente intuire dalla pagina “racconti” su in
alto, o dai post “Scribacchiolando” che pubblico a cadenza
incalcolabilmente casuale. Ho scoperto, negli ultimi anni, che mi
imbarazza pure ammetterlo, perché il prototipo italiano del
wanna-be-scrittore non è proprio l'esemplare più ammirevole di
questo universo mondo. C'è quello che riscrive la propria vita con
infinite ripicche, quello che spedisce il proprio alter ego a
sguazzare in un mare di proposte sessuali, quello che “la
grammatica inibisce la sua creatività”. E per quanto io sia
consapevole che non sono io a poter decidere di non essere parte di
quel magma di orrendume letterario, posso dire con severa decisione
che, ehi, Io progetto. E cancello, e correggo, e riscrivo, e
riprogetto e poi faccio implodere tutto e ricomincio daccapo. Pure
troppo.
Il
tema centrale di questo “Scribacchiolando” è la riscrittura
maniacale. Più o meno.
Ricordo
giornate intere passate davanti al computer a maltrattare diottrie e
a tempestare tastiere. Potevo arrivare pure a trenta pagine al
giorno, non scherzo. Alle medie, alle superiori. Avevo un momento
libero e zac, davanti al computer fino al momento in cui mia sorella
non mi avrebbe cacciata per fare le robe sue.
Cos'è
cambiato da allora? Intanto mi sono fermata per anni. Il foglio
bianco non è diventato mio nemico, ma il nostro rapporto si è
comunque trasformato. Da un'amicizia stretta, calorosa, intima fino
alla semplice conoscenza. “Buongiorno, Foglio Bianco, tutto bene?”
“Tutto a posto, tu?” “Non c'è male.” “Bene.” “Bene.”
E ognuno via per la sua strada, con un'occhiata imbarazzata piena di
sollievo.
E
poi beh, nell'ultimo anno ho cercato di rimettermi a scrivere. Senza
sforzarmi troppo, senza obbligarmi. E un paio di giorni fa è
successo che mi sono messa a scribacchiare senza avere poi molto in
testa. Due personaggi presi da un'altra storia – non ne sentirà la
mancanza – e una stanza, poi una casa, poi... e poi la storia. E ho
scribacchiato abbastanza, devo dire. Abbastanza da sentirmi spalle e
collo doloranti di soddisfazione.
Uno
dei motivi è che, contrariamente a quanto ho fatto negli ultimi
anni, stavolta non ho corretto. Ho lasciato le frasi imperfette,
incomplete, nella loro forma-significato embrionale, con la sintassi
corretta ma brutte a leggersi. Non mi sono fermata per ricontrollare,
per limarle e smussarle e renderle perfette. No, che aspettino il
loro tempo. Che aspettino il giorno in cui avrò finito di scrivere
la storia, che aspettino la pagina, chessò, duecento?
Duecentocinquanta?, e la successiva parola “fine”.
Hemingway
ha detto “Write drunk, edit sober”. Non penso proprio che
intendesse una scrittura inondata d'alcol, piuttosto una scrittura
fluida e mondata dalla propria coscienza grammaticale. Che si mettano
a tacere le rimostranze sintattiche, che taccia il fantasma della
correzione. Resti nel fodero la spada che combatte il refuso.
Meglio
portare avanti la trama.
Almeno
credo. Almeno per adesso. Almeno per me.
Voi
avete consigli da portare in dono? Se scrivete, quando correggete?