Ah,
gli esami che incombono. Quale piacevole routine mi attende d'ora
innanzi, fatta di studio e pause studio.
È
un po' che non scrivo qui, il che mi disturba. Anche perché,
realisticamente, dubito che sia questo il momento in cui ricomincerò
a postare con una certa regolarità. Ma via, va bene così. Peccato
che io abbia un sacco di libri di cui chiacchierare. Crune d'aghi per
cammelli di Maria Silvia Avanzato, Stabat Mater di Tiziano Scarpa,
Les Italiens di Enrico Pandiani e perfino La casa della gioia di
Edith Warthon, che ho finito di leggere eoni fa e adorato
visceralmente.
Ma
dovranno aspettare, perché è quello che succede alle recensioni
quando inizia a saltellarmi in testa un qualsiasi altro argomento
libroso, anche quando non è interessante, né originale, né
innovativo, né trattato in maniera approfondita. Proprio come in
questo caso.
Ho
sempre pensato che avrei fatto della scrittura il mio mestiere, un
giorno. Almeno credo. In realtà non riesco a recuperare il
momento in cui ho iniziato a concepire la possibilità di vedere
pubblicati i miei scritti, un giorno mooolto lontano. Ho sempre
scribacchiato, fin dalle elementari, quando mi toccava legare insieme
dei fogli con lo spago ed essere certa di avere sempre delle penne
nere sottomano, perché non volevo usare altro colore che quello che
vedevo stampato sui libri veri. Tra l'altro, per quanto la cosa mi
irriti, devo pure ammettere che un tempo scrivevo molto meglio ed
estremamente molto di più di quanto non faccia ora.
Mi
veniva facile, prima. Non appena c'era il computer libero – un
unico pc in casa, e solo verso la fine delle superiori uno da
dividere soltanto con mia sorella. Che comunque ci stava un fracco
pure lei, litigavamo ogni giorno per l'usufrutto della tastiera –
mi ci fiondavo e iniziavo a scrivere. Anche quando non avevo una
storia in mente e nemmeno un personaggio, davanti al foglio bianco
iniziavo a descrivere brevemente il luogo, annunciavo in che periodo
dell'anno ci si trovava, e poi piazzavo lì in mezzo un personaggio.
Inutile dire che ben di rado ho finito quello che avevo iniziato,
anche se al momento la cosa dipende più dai costanti cambiamenti che
dalla mancanza di progettazione.
Ad
ogni modo – che se continuo così 'sto post rischia di trasformarsi
in una pappardella in cui me la canto e me la suono – scrivevo un
sacco, proprio perché lo facevo senza pensarci troppo.
Poi
è arrivato Internet. O meglio, il mio rapporto con la rete si è
evoluto e si è mescolato col rapporto che ho coi libri. Ed è così
che, a decenni di distanza dalla mia prima cartella sul desktop
denominata 'Storie di Erica', sono arrivati i Consigli di Scrittura.
Un po' arrivano dalle interviste, certi da articoli dedicati, altri
da manuali sull'argomento, tipo questo o questo. E da
qualche tempo seguo – e ritwitto un sacco – Advice to Writers, che riporta come è ovvio che sia i numerosi consigli di
numerosissimi scrittori. E, come dire, è un po' la fiera della
contraddizione. Comincio a pensare che la sovrabbondanza di
suggerimenti sia più una dannazione che un effettivo aiuto.
Pareri
discordanti ovunque. Miracolo trovare due scrittori che la pensano
allo stesso modo, o che si affidano alla stessa routine. Il consiglio
che pare andare per la maggiore è quello che impone di piazzare il
culo sulla sedia e scrivere, questo pare abbastanza condiviso. Ma
perfino questa che dovrebbe essere una regola basilare trova i suoi
detrattori, secondo i quali scrivere non può essere una forzatura, e
se proprio non si riesce ad andare avanti bisogna prendere una pausa
che deve essere lunga quanto necessario.
E
poi?
Poi
stacca Internet, stacca il telefono, dimentica la famiglia e gli
amici. Vivi da recluso.
Ma
no, per scrivere bisogna vivere la propria vita e quindi immergersi
in quella degli altri, conoscere nuove persone, ampliare i propri
orizzonti.
E
bisogna scrivere di quello che si ama e si conosce, ma 'i libri
brutti sono quelli che trattano di ciò che l'autore conosceva già',
denota Carlos Fuentes.
Dialoghi,
dialoghi, dialoghi. Wodehouse consiglia di arrivarci il prima
possibile, ma allo stesso tempo è necessario essere certi che il
lettore abbia ben chiaro tutto il resto. Non c'è bisogno di
descrivere granché, se la storia ha luogo, putiamo caso, nella Roma
odierna, ma dovesse trattarsi di un fantasy? Di un romanzo di
fantascienza?
Cercare
pareri, sempre. Da amici, familiari, professionisti. Ma anche non
cercare consigli da amici e familiari, perché ti sono troppo vicini
per essere oggettivi, e poi non è detto che capiscano qualcosa di
scrittura. E mai accettare pareri da altri scrittori, perché
tenteranno di infilarsi nel tuo libro. Cosa che tra parentesi rischio
spesso di fare, quando un'amica mi parla dei fumetti che sta
progettando. Mea culpa.
Non
scrivere e non progettare nulla di nuovo, finché non hai messo la
parola fine alla storia cui ti stai dedicando adesso. Ma no, non
rischiare di arenare il flusso creativo, abbi la forza di mettere da
parte qualcosa che è ormai fermo e inizia qualcos'altro che magari
scorrerà più facilmente.
Devi
leggere moltissimo, in ogni momento libero. E devi prendere il meglio
di quello che leggi e farlo tuo. Ma guai se lasci che questo ti
cancelli da ciò che scrivi.
Show,
don't tell, chi se lo dimentica? La regola delle regole, falciatrice
di descrizioni. Ma se uno è bravo a scriverle? E se l'ambientazione
è particolarmente bizzarra e interessante e necessita di essere
spiegata? Che si fotta lo show, don't tell, dicono altri. Ora è
tutto molto più chiaro.
Progetta
e pianifica prima di metterti alla tastiera, ma! Fallo prima che si
esaurisca l'entusiasmo per la nuova storia.
E
attenzione a non identificarvi troppo coi vostri personaggi (a questo
proposito ho letto ieri questo post, se vi va di dare
un'occhiata) ma che ognuno di quei personaggi abbia dentro un po' di
voi, altrimenti addio empatia.
Rendersi
comprensibili, prima di tutto, dice Anthony Hope Hawkins, a meno che
non si sia dei geni. Ma nooo, nel contempo non si può rischiare che
le altrui aspettative infrangano il nostro stile personale.
Scrivi
per te stesso.
Ma
no, scrivi per il lettore.
Anzi,
scrivi la storia che vorresti leggere.
Via
avverbi e aggettivi, subito!
Ma
no, una certa quantità è necessaria.
E...
non so.
Il
succo del discorso, se mai ci fosse stato bisogno di qualcuno che lo
additasse con veemenza, è che ognuno ha i suoi metodi, la sua
routine, la sua idea di scrittura, i suoi trucchi, e non ha senso
lasciarsi ossessionare dai metodi altrui. Si finisce soltanto col
perdere tempo.
Non
che non esistano gli errori, o metodi poco funzionali. Non sto
dicendo che i consigli siano inutili o che non vadano mai seguiti,
anzi. Ma ammetto che per un certo periodo mi sono lasciata quasi
ossessionare da quegli stessi consigli, che non riuscivo a mettere
insieme due frasi senza chiedermi se non stessi 'raccontando troppo',
se la descrizione non fosse ridondante o eccessiva, se non fossi
troppo o troppo poco comprensibile. Se ci fosse troppa me in quel
personaggio, se l'azione non fosse misera commisurata al tema... e
questa confusa immobilità spicca contrapposta a quel lontano periodo
in cui era un'impresa staccarmi dalla tastiera su cui scrivevo – e
abbandonavo – decine e decine di storie.
Stare
comodi nei propri metodi è importante, secondo me, abbastanza da
cancellare tutto il resto.
E
quindi, in definitiva, questo mio post aggiunge qualcosa ad un
argomento che è a malapena un argomento? No, certo che no, ma mi
andava di chiacchierarne. Il che effettivamente riassume quello che
penso della scrittura.